Dietro la partnership senza limiti tra Pechino e Mosca si nascondono alcuni screzi di fondo. E uno di questi, che riguarda la sovranità su alcune porzioni di territorio russo, si è riacceso da poco
Il “Sogno Cinese”, altresì detto “Grande ringiovanimento della nazione cinese”, è uno dei concetti chiave su cui il segretario del Partito Comunista Xi Jinping ha costruito la sua struttura di potere. La palingenesi evocata da Xi passa attraverso diverse dimensioni, compresa quella della riunificazione territoriale. Che Pechino abbia delle mire sull’isola di Taiwan, oltre che su altre terre emerse sparse attraverso il Mar Cinese Meridionale, non è certo un segreto. Meno nota è invece la tendenza del nuovo Celeste Impero di guardare anche a nord, in direzione di quello che per Pechino dovrebbe essere un “partner senza limiti”.
Intorno alla metà del diciannovesimo secolo, una serie di trattati tra l’Impero Ming e l’Impero russo garantì a Mosca il controllo sulla regione della “Manciuria Esterna”, dentro alla quale sorge la città portuale di Vladivostok, nota in cinese come Hǎishēnwǎi. Un decreto del governo di Pechino risalente al 2023 obbliga, all’interno di mappe e cartine realizzate nella Repubblica Popolare, l’impiego dei nomi cinesi per la città di Vladivostok, nonché per il Primorsky Krai (l’area amministrativa che fa riferimento alla stessa città) e per altre sette località del Far East russo, come Khabarovsk o l’isola di Sakhalin. Una mossa senz’altro dettata da bisogni propagandistici, che però segnala come le ambizioni cinesi di riprendere possesso dei territori perduti durante un momento di crisi della loro storia sono tutt’altro che estinte.
A risultare particolarmente rilevante in questo contesto è la dinamica demografica. “La preoccupazione per il ‘Pericolo giallo’ nell’Estremo Oriente russo non è nuova. Esiste da decenni, se non da secoli, a causa del forte squilibrio demografico tra i due lati del confine”, commenta per Newsweek il direttore del “China Program” dello Stimson Center Yun Sun. Le preoccupazioni causate dalla suddetta sproporzione spinsero infatti il dittatore sovietico Josif Stalin ad avviare un programma di espulsioni oltreconfine delle persone di etnia cinese. Ma adesso sembra che gli equilibri stiano nuovamente cambiando: durante gli ultimi anno un numero sempre maggiore di individui cinesi, per la maggior parte agricoltori, avrebbe attraversato il confine per stabilirsi nel Primorsky Krai. Arrivando ad un punto tale che la quasi totalità della terra coltivabile della regione sarebbe ad oggi controllata proprio immigrati cinesi. E la difficile congiuntura economica che in questo momento stanno attraversando le province della Cina nord-orientale suggerisce un incremento nei flussi migratori. “La preoccupazione è che l’afflusso di cinesi sfidi il controllo della Russia. Non credo che la questione della sovranità sia ancora in discussione, ma come gestire gli agricoltori cinesi sul terreno sarà una questione spinosa”, afferma Yun.
Per fermare questa “invasione” cinese, Mosca ha provato ad utilizzare l’arma ucraina. Il Primorsky Krai ospita sin dalla metà del diciannovesimo secolo una delle più forti minoranze ucraine in territorio russo (il cosiddetto green wedge), a cui negli anni scorsi si sono aggiunti ulteriori individui di etnia ucraina che il governo di Mosca ha spinto forzatamente verso il Far East. E forse, la scelta “nazionalista” del Segretario del Partito Comunista cinese sull’impiego della nomenclatura cartografica può essere interpretato come una risposta a ciò.
Oltre che un primo passo all’interno di un piano, contingenziale o meno, di lungo periodo. Xi non ha la sfera di cristallo, ma fa in modo di essere preparato ad ogni evenienza. E qualora la guerra in Ucraina si rivelasse fatale per il regime putiniano, e portasse addirittura ad una crisi del potere centrale di Mosca, Pechino avrebbe tutte le pedine pronte a perfezionare la ripresa del controllo sulle sue terre perdute. Partnership illimitata o meno.