Puntare sulle economie di scala superando la frammentazione del mercato, fornire e finanziare beni pubblici europei e garantire il rifornimento di risorse indispensabili sono le tre condizioni indispensabili per una Unione europea che guardi al mondo di domani, e non si fermi a quello di ieri. L’analisi di Gianfranco Polillo
Nei tempi eroici dei primi del ‘900, lo slogan gridato in mille piazze e declinato in mille lingue era: “La verità è rivoluzionaria”. Tra i tanti fautori Lenin, anche se fu Lev Trockij a battezzare con quel nome il quotidiano – la Pravda (verità) – che divenne prima l’organo del Partito comunista dell’Unione sovietica, quindi quello dello stesso partito della Federazione Russa, quando la vecchia Unione si dissolse. Allora, come oggi, il futuro batteva alle porte. I vecchi imperi centrali si erano gettati in una guerra – quella del 1915-18 – che avrebbe determinato la loro fine e dato inizio a quel “secolo breve” segnato dalla tragica presenza dei Quattro cavalieri dell’Apocalisse. Quasi trent’anni in cui i diversi popoli europei si massacrarono in una guerra fratricida.
Vengono in mente questi trascorsi storici nell’ascoltare l’ultimo discorso di Mario Draghi durante la due giorni di La Hulpe, un sobborgo della capitale Belga, in cui si è discusso dell’Europa sociale. Impressionante l’incipit: “Il modello di crescita europeo si è dissolto, dobbiamo reiventarci”. Qualcosa che fa a pugni con la quella retorica che vorrebbe fare “dell’Europa il primo continente neutrale dal punto di vista climatico del pianeta entro il 2050” (Charles Michel, presidente del Consiglio europeo). Come se tutto ciò non comportasse un cambiamento radicale del modo d’essere di ciò che, finora, è stato.
E allora partiamo dal presente, cercando di capire quale furono le caratteristiche di quel “modello” che è evaporato. Le cui radici erano presenti anche prima della nascita dell’euro, ma che l’avvento del nuovo conio ha decisamente consolidato. Al centro di tutto era l’economia tedesca e quella di altri (pochi) Paesi frugali. La Francia seguiva, immaginando una coabitazione che di fatto era solo dipendenza. Il “made in Germany” aveva due punti di forza. Forniture energetiche a basso prezzo, grazie al rapporto preferenziale con la Russia, un modello di specializzazione industriale (meccanica e beni capitali) destinati a favorire lo sviluppo del Sud Globale. Soprattutto della Cina.
Questa forza le consentiva di accumulare ingenti risorse finanziarie, sotto forma di attivi correnti della bilancia dei pagamenti. Capitali che, in parte, rifluivano in politiche di investimento soprattutto a favore dei Paesi vicini dell’ex blocco comunista. Quel che rimaneva (una buona parte) poteva essere utilizzato per consentire prestiti, ovviamente onerosi, a favore di tutti gli altri partner europei. Nel 2001 il suo credito nei confronti dell’estero era pari, secondo Eurostat, al 6,5 per cento del Pil. Nel 2023, questa quota aveva raggiunto il 70,4 per cento.
Meglio dei tedeschi solo gli olandesi che nel 2020 avevano raggiunto il 113 per cento del Pil. Seguiti, nel 2023, nell’ordine (dati più significativi) dal Belgio, la Danimarca, la Svezia e l’Italia con un suo, comunque significativo, 7,4 per cento. Sempre nel 2023, 12 Paesi europei, con le risorse derivanti dagli attivi valutari, avevano finanziato i restanti 15, consentendo loro di vivere più comodamente. Mentre i “frugali” (strana la presenza dell’Italia) subivano la pressione deflazionistica, che impediva loro di utilizzare pienamente le risorse disponibili.
Questo modello poteva durare nel tempo se non vi fosse stata la crisi dei sub-prime americani, con il fallimento della Lehman Brothers, avvenimento destinato a cambiare il volto del Pianeta: dalle primavere arabe, fino all’involuzione di Vladimir Putin verso una posizione revanscista. Che in Europa significò la crisi della Grecia ed il rischio di contagio per i Paesi più esposti: compresa l’Italia. Da allora i finanziamenti inter – europei sono divenuti più onerosi, ma soprattutto più rischiosi. Le politiche economiche, a seguito del Covid prima e dei boati della guerra ai confini dell’Europa e nel Mediterraneo, sono divenute più guardinghe spezzando del tutto quei vecchi legami commerciali e finanziari, che avevano garantito l’epopea della globalizzazione. Chi poteva – la Cina da un lato, gli Usa dall’altro – si erano salvati facendo intervenire lo Stato nelle rispettive economie. L’Europa, che di questa risorsa non dispone, era rimasta al palo.
Ed ecco, allora, il monito di Mario Draghi. “Il nostro processo decisionale e i nostri metodi di finanziamento sono stati concepiti per il ‘mondo di ieri’”, ossia pre-Covid, pre-Ucraina, pre-scoppio della crisi in Medio Oriente, prima del ritorno della rivalità tra le grandi potenze. “Abbiamo invece bisogno di un’ Unione europea che sia adatta al mondo di oggi e di domani. Di conseguenza, nella relazione che il presidente della Commissione europea mi ha chiesto di preparare proporrò un cambiamento radicale, perché è ciò che serve”.
Tre le leve su cui agire: “L’uso il più efficace possibile delle economie di scala a livello continentale (superando la frammentazione del mercato in alcuni campi, come quello delle telecomunicazioni); l’urgenza di fornire e finanziare beni pubblici europei; e l’importanza di garantire il rifornimento di risorse indispensabili (non solo materie prime, ma anche manodopera)”. Questa prospettiva dovrebbe interessare tutti i partner europei, a condizione tuttavia – aggiungiamo noi – che siano in grado di vedere oltre il piccolo tornaconto immediato. Ma se ciò non fosse possibile, allora la strada da intraprendere è quella “di procedere con un sottoinsieme di Stati membri”.
Si tratterebbe di favorire “la nascita di un regime legale parallelo” da lasciare alla libera scelta dei singoli. Che potrebbero opzionare l’uno o l’altro. L’unica cosa certa è la necessità del cambiamento. Si calcola che, in Europa, il monte risparmio sia pari a circa 33 mila miliardi di euro, e che ogni anno 300 miliardi siano investiti all’estero, in particolare negli Stati Uniti, soprattutto a causa di una frammentazione del mercato unico che non è più giustificabile. Un raccapricciante spreco.
Questa debolezza favorisce i grandi competitor, non tanto dei singoli Stati europei, ma dell’Europa tutta. Una colpa che non può essere imputata a chi opera in difesa dei propri interessi, ma di chi – gli stessi europei – non hanno capito le nuove regole del gioco. Recuperare il tempo perduto diventa pertanto una priorità assoluta per evitare di subire le strategie altrui che, nelle migliori delle ipotesi, tendono solo a creare un rapporto di dipendenza a scapito di chi è rimasto indietro. Discorso che vale tanto nei confronti della Cina, quanto degli stessi Stati Uniti.
Ed ecco allora le cose da fare: “Contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti e su un sistema di difesa Ue integrato, sulla produzione domestica nei settori più innovativi e in rapida crescita, e su una posizione di leadership nel deep-tech e nell’innovazione digitale”. Non sarà facile, a causa del prevalere di preoccupazioni anche legittime dei singoli Stati, ma bisogna avere il senso delle proporzioni. Quanto la casa brucia non ha senso preoccuparsi della tappezzeria. La priorità è spegnere l’incendio. Per riposizionare gli arredi ci sarà poi il tempo necessario.