Dalla Bolkenstein a Uber, le liberalizzazioni sono un tema difficile da affrontate nel Nostro Paese, soprattutto sul piano della Pa.Nonostante le pressioni in questa direzione che arrivano da Bruxelles
Sono passate quasi tre settimane dalla sentenza del Consiglio di Stato che imponeva ai Comuni di avviare immediatamente le gare per l’assegnazione delle concessioni balneari. Ma l’avverbio “immediatamente” nel linguaggio della pubblica amministrazione somiglia alla distinzione tra “termine perentorio” e “termine ordinatorio”. La Pa non si muove senza “termini perentori” e senza l’indicazione di sanzioni comminabili con certezza.
Quindi? Quindi si va avanti così, nel limbo di una certezza normativa che l’Europa – dalla Direttiva Bolkenstein in poi – vorrebbe sui temi della concorrenza, ma che l’Italia (e i suoi Governi) trasforma in incertezza, ritenendo la regola europea inopportuna, inapplicabile, improponibile, invocando come sempre tutta l’irriducibilità del “caso italiano”. Alla nostra latitudine le regole dell’Europa valgono a intermittenza. E questo sia che ci siano europeisti o anti-europeisti al comando. Per i balneari – come per i taxisti – l’Italia decide di non essere in Europa, nonostante il Consiglio di Stato, cioè nonostante la decisione del massimo organo della propria giustizia amministrativa, inappellabile se non per difetto giurisdizionale.
La direttiva Bolkenstein è una pietra miliare della legislazione europea nel campo del libero mercato e della concorrenza all’interno della Ue; regola lo svolgimento delle attività legate ai servizi privati nei singoli Stati che, salvo particolari eccezioni, devono poter essere appannaggio anche di imprese e professionisti di altri Paesi dell’Unione. La decisione, emanata il 30 aprile 2024 dalla VII sezione del Consiglio di Stato, segue un ricorso presentato da un gestore di uno stabilimento balneare di Rapallo (Genova), che aveva contestato la legittimità delle proroghe oltre il termine del 2023. Questa sentenza rigetta la proroga al 31 dicembre 2024 stabilita dal decreto Milleproroghe del Governo, che era stato temporaneamente adottato da numerosi Comuni italiani in attesa di nuove regolamentazioni.
La sentenza si basa sui principi della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, contestando la posizione del governo che, in una lettera inviata a gennaio alla Commissione Europea, difendeva il rinvio dell’applicazione della direttiva Bolkestein. Tale direttiva richiede che le concessioni per il demanio marittimo siano assegnate mediante gara pubblica. Il Governo sostiene che le spiagge italiane non siano una risorsa scarsa, ma il Consiglio di Stato ha contraddetto questa affermazione, ribadendo la scarsità delle spiagge come già determinato in precedenti giudizi. Questa decisione sembra seguire quella spagnola sui chiringuitos.
Eppure, nulla si muove. L’estate è vicina, ma le elezioni ancora di più. Il Governo, per bocca dei suoi due vicepremier (Tajani e Salvini) ha ribadito che si adopererà per difendere gli attuali concessionari, insomma per disinnescare l’efficacia della sentenza del Consiglio di Stato: l’unico modo sembra l’approvazione di una nuova norma di legge che sia successiva al Milleproroghe, di fatto bocciato dal Consiglio di Stato.
Ma chi ha paura della concorrenza? Lo scontro sulle concessioni demaniali marittime è tutto naturalmente politico, prima che economico e giuridico. E riguarda il consenso di una parte importante del settore del turismo, che occupa in Italia decine di migliaia di persone e coinvolge, secondo Unioncamere, 6.823 stabilimenti, responsabili di ben 29.689 concessioni. Prima del voto di giugno è assolutamente improbabile che se ne faccia nulla. In un senso o nell’altro sono in gioco troppi consensi, utili per le europee e per le centinaia di elezioni comunali direttamente o indirettamente coinvolte con le concessioni demaniali.
Il caso dei balneari somiglia molto al braccio di ferro che continua da anni tra taxisti e amministrazioni comunali, a tutto svantaggio dei cittadini e dei turisti, privati del diritto di un servizio a concessione pubblica. Nonostante le rassicurazioni del Governo le licenze dei taxi si confermano manifestamente insufficienti: basta fare un viaggio alle stazioni ferroviarie di Milano o di Roma per rendersi conto delle code che si accumulano in attesa dell’auto di servizio.
Anche in questo caso l’Europa non arriva a Sud delle Alpi. L’Italia è l’unico Paese europeo che ha ostracizzato Uber. E’ bastato un incontro (in aprile) al Mimit per far programmare un nuovo sciopero dei taxi (per il 21 maggio) contro il “rischio” Uber. La concorrenza non si addice agli italiani? Ci sono aree del servizio pubblico in concessione che devono restare inattaccabili. Sulle spiagge si dice che siano a rischio 300mila posti di lavoro. Ma si parla sempre poco dei diritti degli utenti dei servizi – che si tratti di trasporto taxi o di gestione di stabilimenti balneari, quasi sempre carissimi e quasi mai di qualità adeguata – i cittadini (e i turisti) restano una variabile indipendente; la loro soddisfazione è marginale, i loro diritti sempre negoziabili, ma al ribasso.