Quarantasei anni fa, il brutale assassinio del presidente della Dc Aldo Moro. L’uomo migliore, più lungimirante, che si batté per “ricucire” il Paese e per una maggiore integrazione europea. Lo Stato dimostrò di essere esposto alle intemperie e fragile. Del suo tentativo di riconciliazione con il Pci resta il metodo, sul quale però il dibattito politico è arretrato. Ma non era per il Compromesso Storico. Conversazione con Marco Follini
Dove ci porta la nostra memoria se ci voltiamo indietro? A quel 9 maggio del 1978. Via Caetani, dove questa mattina il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha deposto una corona d’alloro. La vittima di quel brutale assassinio – per mano del terrorismo brigatista – si chiamava Aldo Moro. Ed era “l’uomo migliore di quella stagione politica”. Abbiamo cercato di sfogliare a ritroso le pagine della storia repubblicana, per arrivare a quel capitolo terribile. Mai chiuso, in sostanza e in coscienza. Per farlo, ci siamo affidati all’ex vicepresidente del Consiglio, esponente di primo piano dell’Udc, Marco Follini.
Rapito, tenuto in ostaggio, assassinato. Simbolicamente, per la storia repubblicana, cos’ha rappresentato quel 9 maggio di 46 anni fa?
Fu un segnale chiaro. Il potere era fragile ed esposto alle intemperie. Lo Stato, quel giorno, ha dimostrato di non essere capace di proteggere il suo uomo migliore.
Perché Moro era “l’uomo migliore”?
Perché era quello che aveva lo sguardo più lucido, che vedeva più lontano e che si stava adoperando – dopo un periodo drammatico di sangue e stragi – per ricucire il Paese. Moro intuì che stavano venendo a galla i nodi irrisolti della storia italiana. Non ci si poteva permettere ulteriori lacerazioni perché stava maturando anche nelle persone un’esigenza di pacificazione.
Sono tante le teorie attorno al suo omicidio. Quanto incidono, secondo lei, le posizioni di Moro a livello di posizionamento internazionale del nostro Paese?
Il presidente aveva capito che, in un mondo che andava in una certa direzione, l’Italia doveva essere in qualche modo protagonista oltre gli schemi della Guerra Fredda. Sentiva forte l’esigenza di una maggiore integrazione europea – una linea portata avanti anche nel corso del suo incarico da ministro degli Esteri – e di una migliore collaborazione tra i vari sistemi dei Paesi.
Gli costò, invece, caro l’aver teorizzato il cosiddetto Compromesso Storico.
Questa è una leggenda che va smontata in tutti i suoi pezzi. Moro non era per il Compromesso Storico.
E come la definisce la sua innegabile apertura verso il Pci di allora?
Dalla prospettiva di un democristiano riconobbe ai comunisti una legittimazione come interlocutori, benché da un punto di vista molto distante. La “pacificazione” passava per forza da questo riconoscimento. Era inevitabile: e lui lo capì prima di tutti. Ma questo riconoscimento non era finalizzato a costruire un governo di “salute pubblica”.
È legittimo, oggi, chiedersi se il nostro Paese ha fatto pace con quella pagina di storia. Cosa ne pensa?
Abbiamo sicuramente voltato pagina, senza tuttavia risolvere il problema di fondo. Ossia la legittimazione dell’avversario politico che è sempre vissuto con sofferenza e profonda avversione, quando invece rappresenta un valore. Soprattutto per chi, momentaneamente, si trova al governo.
Questo, più di altro, è ciò che resta di Aldo Moro?
Resta la riflessione che il presidente Moro elaborò, in particolare negli ultimi giorni della sua vita. Secondo Moro lo scontro politico era da ricondurre su un piano più dialogico e civile, meno ferino. Devo dire, sotto questo profilo non gli si è dato molto ascolto. Al contrario, mi sembra che questo sia uno dei grandi problemi irrisolti della nostra politica. E, più in generale, del Paese.