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L’Italia ha bisogno del suo ceto medio. Cida spiega come ritrovarlo

La spina dorsale dell’economia nazionale, fatta di manager, dirigenti e liberi professionisti, ha sempre più difficoltà a credere in un futuro migliore e non si sente sufficientemente protetta. Colpa di un fisco iniquo e dell’assistenzialismo. Il dibattito a Montecitorio promosso dalla Cida

Si dice spesso che le piccole e medie imprese sono la spina dorsale dell’economia italiana. Ed è proprio così, il cuore pulsante dello Stivale è nella manifattura. Se poi il discorso si allarga ai professionisti, ecco che tutto si può riassumere in due parole: ceto medio. Lo stesso sistema fiscale italiano è imperniato su questo bacino, dal momento che il grosso dell’Irpef versato ogni anno nelle casse dello Stato, arriva proprio da lì. Il governo di Giorgia Meloni è impegnato da tempo in una ambiziosa riforma fiscale che, oltre a riscrivere il perimetro della stessa imposta sulle persone fisiche, mira proprio ad alleggerire il carico sul ceto medio, a cominciare dagli autonomi.

Ma c’è un problema: i redditi del ceto medio sono fermi, immobili, anche dinnanzi al costo della vita esploso negli ultimi tre anni. E anche l’umore non è dei migliori. Di tutto questo si è parlato nella grande Aula dei Gruppi parlamentari della Camera, nel corso del convegno per la presentazione del Rapporto del Censis, Il valore del ceto medio per l’economia e la società, promosso e organizzato dalla Cida, la Confederazione dei dirigenti italiani, guidata da Stefano Cuzzilla. Al dibattito hanno preso parte, tra gli altri, il vicepremier Antonio Tajani, i deputati Annarita Patriarca, Maria Elena Boschi, Marta Schifone e Paolo Barelli, il senatore Antonio Misiani, unitamente al segretario del Censis, Giorgio De Rita.

Il punto di caduta lo ha indicato lo stesso Cuzzilla: il ceto medio italiano è depresso, poco valorizzato e troppo tassato. Un’infrastruttura, ancor prima che economica, anche umana, che va protetta e rimessa in sesto. Possibile? Doveroso, secondo i dirigenti italiani. D’altronde, i numeri dello stesso Censis, non mentono. Si assiste da tempo “a una lenta erosione del ceto medio italiano, ma ora il fenomeno è accelerato, e si rischia di perdere il pilastro della nostra società e il fondamento della nostra economia. Oggi il 60,5% degli italiani si sente di appartenere al ceto medio. Prima ancora che una questione reddituale, essere ceto medio è una condizione di identità e status sociale percepito”, si legge nello studio del Censis e della Cida.

Tutto questo non può che deprimere l’umore del ceto medio. “Ma se nel passato aureo dello sviluppo italiano essere ceto medio significava sentirsi parte di un movimento collettivo in ascesa, oggi prevale la percezione di un declassamento socio-economico: il 48,8% vive il timore di una regressione nella scala sociale e il 74,4% ha la convinzione di un concreto blocco della mobilità verso l’alto. Questo nuovo periodo è dominato da una paura palpabile del blocco della mobilità sociale non solo per i redditi più bassi ma anche per le fasce di reddito fino a 50 mila euro e oltre, che sono quelle che trascinano consumi e investimenti. Certamente un netto distacco dall’ottimismo e dalle percezioni collettive di opportunità che un tempo erano diffuse tra noi. In fondo la parabola del ceto medio è la parabola vissuta dalla maggioranza delle famiglie italiane in più generazioni, passata da alti ritmi di crescita del Pil al suo rallentamento”.

Ma come si è arrivati a tutto questo? Lo spiega lo stesso studio. “Globalizzazione e cambiamenti tecnologici hanno spostato l’asse della creazione di reddito verso economie emergenti, svuotando le strutture produttive dei Paesi più avanzati che hanno perso occupazione di qualità, in termini di retribuzione e tutele. Eloquente il dato sulle famiglie: in un ventennio, dal 2001 al 2021 il reddito pro-capite delle famiglie italiane è sceso del 7,7%, mentre la media europea saliva di quasi 10 punti percentuali, con le famiglie tedesche a +7,3% e quelle francesi a +9,9%. Ciò spiega perché il presente e il futuro sono segnati dalla paura del declassamento, da una propensione a difendere il proprio status quo più che a migliorarsi, con la convinzione che l’andamento del benessere nel tempo sia decrescente. Un’idea radicata nella pancia sociale del Paese, condivisa in pieno dalla maggioranza netta di persone che si sente parte del ceto medio: il 66,6% degli italiani (il 65,7% del ceto medio) è convinto che le generazioni passate vivevano meglio e il 76,1% degli italiani (75,1% del ceto medio) ritiene che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali”.

Cuzzilla ha provato a fare una sintesi. “A me preoccupa soprattutto questa assenza di speranza nel futuro se le aspettative calano, se non si crede più di poter migliorare la propria condizione, se si ritiene che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali, sarà il Paese intero a pagare un prezzo altissimo. È nostra responsabilità, come manager e come società civile, rispondere a questo cambiamento e intercettarne i bisogni prima che sia troppo tardi. Significa investire per avere un sistema costruito sulla triade più alto benessere economico, più alti consumi, aspettative crescenti. Mentre oggi siamo in questa situazione: meno benessere economico, consumi ridotti, aspettative pessimistiche. Solo valorizzando l’impegno nel lavoro, il talento, le conoscenze e le competenze, è possibile riattivare i meccanismi di crescita”.

Va bene, ma quali le proposte? Un taccuino c’è. “Bisogna invertire la tendenza che finora ha costantemente privilegiato misure volte all’assistenzialismo attingendo risorse dal ceto medio, principalmente pensionati e lavoratori dipendenti”, ha messo in chiaro Cuzzilla. “Si tratta di una sfida strutturale, la stessa funzione del fisco andrebbe capovolta, trasformando la leva fiscale: invece che ostacolo, dovrebbe incentivare chi investe, chi crea lavoro, chi eroga servizi, chi ha talento e si impegna. È quello che emerge anche dalla ricerca. Ben l’80,6% degli italiani ritiene che il sistema fiscale dovrebbe premiare chi crea impresa, lavoro, opportunità”.

Nel concreto, la Cida propone una revisione delle aliquote Irpef e del sistema di detrazioni/deduzioni, che vada nella direzione della riduzione della pressione fiscale per le fasce di reddito medio-alte, passando gradualmente da tre a due aliquote. Infatti, il reddito non determina solo le imposte da pagare ma anche la possibilità di accedere a detrazioni, deduzioni e altri servizi. E ancora, sarebbe equo che le forme di decontribuzione e di defiscalizzazione collegate a premi di produzione o ad altre forme di riconoscimento della produttività e del merito “vengano applicate alla generalità dei lavoratori, compresi quindi i dirigenti. Se si vuole riconoscere, com’è giusto, ai lavoratori una parte del merito nel conseguimento della performance, non si dovrebbe porre dunque alcun tetto retributivo all’applicazione degli incentivi fiscali e/o contributivi, l’applicazione dei quali dovrà risultare generalizzata, ovvero elevare l’attuale limite di 80 mila euro di reddito da lavoro ad almeno 120 mila euro per dare una significatività anche per la nostra categoria”, si legge nel documento elaborato dalla Cida.

Infine, se è vero che le “imprese italiane si sono rivelate spesso incapaci nel rispondere alle sfide imposte dalla crisi economica, allora è altrettanto vero che tra le cause di tale fenomeno vi è la cronica carenza di competenze manageriali nel tessuto imprenditoriale. Si potrebbero introdurre degli incentivi fiscali a favore delle figure manageriali che investono in start-up o in partecipazioni nel capitale sociale delle piccole e medie imprese, a valere sull’imposta lorda sul reddito delle persone fisiche (Irpef), anche al fine di favorire l’avvio di progetti di innovazione o internazionalizzazione dei mercati”. Senza considerare che “calo demografico e discontinuità lavorativa daranno vita, nel tempo, a pensionati poveri. Il secondo pilastro diventa quindi fondamentale. Per non parlare del ruolo strategico che i fondi pensione possono giocare a sostegno dell’economia reale nel ruolo di investitori a lungo termine, non ancora adeguatamente incentivato”.

Per chiudere con le parole di Tajani, giunto all’evento al termine di una riunione a Palazzo Chigi dedicata alla situazione in Iran, “dobbiamo aiutare il ceto medio a ritornare il ceto medio. Il governo è assolutamente impegnato su questo fronte, lo studio presentato oggi è sufficientemente esaustivo, i problemi del ceto medio, però, sono ben chiari all’esecutivo di questo Paese. Quindi, se il tema è garantire l’impegno del governo, allora l’impegno del governo c’è”.

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