Primi posti nelle classifiche globali della ricerca, dell’istruzione universitaria, della tecnologia, del mercato dell’arte. Primi posti per patrimoni culturali Unesco. L’Europa, di fronte alla grande rilevanza che Xi Jinping sta riconoscendo all’industria della conoscenza e alle industrie culturali e creative, non ha sinora definito una reale strategia di posizionamento globale. Il commento di Stefano Monti
In questi giorni, il Fondo Monetario Internazionale, mentre aumentava le previsioni di crescita annuali per la Cina, avvisava anche che nel medio termine è previsto per il gigante asiatico un rallentamento della crescita, stimato al 3,3%.
Alla base di tali indicazioni, stime legate all’invecchiamento della popolazione e al calo della produttività. Si tratta di condizioni note, che si associano a moltissimi altri fattori su cui gli osservatori internazionali puntano l’attenzione: la dimensione fiscale, l’assenza di un sistema di welfare, condizioni finanziarie che in più di un’occasione si sono mostrate delicate.
Stime e riflessioni che tengono soltanto in parte conto di alcuni fattori su cui la Cina sta investendo, e da molto, molto tempo.
Soltanto pochi giorni prima, ad esempio, il Sole24Ore sottolineava come nella top 10 delle più importanti università al mondo, 6 fossero cinesi.
Si tratta di una dimensione molto importante, perché da decenni la Cina si sta candidando ad essere un punto di riferimento globale su tutti i settori più rilevanti dal punto di vista internazionale, anche quelli della conoscenza.
Dopo aver conquistato posizioni di leadership nelle produzioni industriali e nel commercio, e aver acquisito posizioni talvolta dominanti sulle attività estrattive, il colosso cinese ha esteso la propria strategia anche su quelle dimensioni per le quali l’occidente ha probabilmente peccato di immodestia.
Le dimensioni della ricerca, ad esempio. O le dimensioni della creatività (l’arte contemporanea, le industrie culturali e creative). Ora le dimensioni dell’istruzione.
Precursore, in questo senso, è stato il mercato dell’arte, che dal 2010 ha consolidato la propria posizione, fino a rientrare tra i principali player mondiali (nel 2022, il mercato cinese era il secondo, dopo solo gli Usa, con un valore stimato di 38 miliardi di dollari).
Parallelamente, sono aumentati gli investimenti in telecomunicazioni (si vedano gli investimenti nei media nel continente africano), in Intelligenza Artificiale (il piano di sviluppo dell’IA di nuova generazione è stato pubblicato nel 2017).
Ora abbiamo un gigante che forse corre meno, ma pensa molto di più: primi posti nelle classifiche globali della ricerca, dell’istruzione universitaria, della tecnologia, del mercato dell’arte, estensione del mercato delle telecomunicazioni. Primi posti per patrimoni culturali Unesco.
A fronte di tutto ciò, i grandi player occidentali hanno sinora ragionato da “occidentali”, con la malcelata convinzione che il grande sviluppo che sta caratterizzando la Cina implicherà le stesse problematiche che ha conosciuto l’Occidente in passato.
Proiezioni che vengono confermate ancora una volta dal Fondo Monetario Internazionale: il rallentamento delle nascite provocherà un rallentamento della crescita; l’incremento della conoscenza implicherà una maggiore battaglia per il welfare; la grande fase espansiva dei mercati troverà una naturale tendenza verso la media, la produttività tenderà naturalmente a scendere.
Condizioni senza dubbio realistiche, come tra l’altro dimostrato dai dati, ma che non necessariamente troveranno la stessa modalità di gestione che i grandi player storici hanno adottato decenni prima, in un mondo molto differente da quello attuale.
L’Europa, di fronte alla grande rilevanza che Xi Jinping sta riconoscendo all’industria della conoscenza e alle industrie culturali e creative, non ha sinora definito una reale strategia di posizionamento globale.
Una strategia che è invece più che mai necessaria, e che è necessario adottare in primo luogo con una logica industriale: cultura e ricerca sono industrie che ormai richiedono un sempre più importante flusso di capitali, che solo in parte possono essere garantite dai vecchi modelli di gestione.
Un laboratorio di ricerca richiede investimenti, non solo nelle attrezzature e nei software, ma anche nelle risorse umane. Investimenti che possono essere in parte garantiti dallo Stato (o dall’Unione), ma che in parte devono anche portare a brevetti, licenze, ricavi. Il vantaggio che l’Unione può ereditare dal passato è la consapevolezza che non tutta la ricerca possa essere veicolata dalle possibilità di implementazione pratica. E quella parte di ricerca dovrà essere garantita. Ma c’è un’altra parte di ricerca che, in Europa, potrebbe avere impatti economici se fosse gestita diversamente.
Manca una visione reale e chiara che colleghi la cultura, che nel nostro continente è ancora immaginata come un’emanazione politica, in industria culturale. Manca una visione che sappia rintracciare in quel pragmatismo che tanto ha caratterizzato la ricerca internazionale, uno stimolo ad avviare delle ricerche che oltre alle dimensioni accademiche sappiano anche declinarsi in stimoli concreti per l’economia reale. Non si tratta soltanto di soldi, o di risorse, si tratta di come vengono organizzate le regole del gioco.
E su cultura e ricerca, le nostre regole, le nostre visioni ci portano a giocare una partita tutta nostra, che però è diversa da quella cui sta giocando il resto del mondo.