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Cosa insegna la morte del presidente Raisi. La ricostruzione di Polillo

Se l’Iran non è nemmeno di grado di proteggere i suoi più alti dirigenti, per esempio dai normali infortuni legati alla semplice logistica, come può pensare di svolgere un ruolo di grande potenza regionale, in grado di condizionare gli assetti dell’intero Medio Oriente? Il dubbio di Polillo

Il mistero della morte di Ebrahim Raisi, del ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian e dei diversi membri dell’entourage iraniano solleva interrogativi ai quali è difficile dare risposta. Ma che comunque non possono essere ignorati. Tentare di ragionarci sopra è quindi necessario non tanto per descrivere l’esatta dinamica del disastro, ma per evidenziare quelle criticità che ne sono state all’origine. Ed allora è bene partire dall’ipotesi più semplice. Non è stato un atto voluto, ma solo una pronuncia del destino. Basta quest’atto consolatorio per tranquillizzare tutti? Ne dubitiamo.

Il minimo che si può dire è che si è trattato di un misto di imperizia e di scarsa lungimiranza. Il che, trattandosi della vita di colui che, stando alle quasi certezze dei commentatori, avrebbe dovuto prendere il posto dell’attuale Guida suprema, lo ayatollah Ali Khamenei, non è proprio una cosa da niente. Dalla poche notizie, che hanno un minimo di certezza, si può desumere che la formazione area che accompagnava il viaggio di Raisi in una zona impervia del Paese, non solo dal punto di vista geografico, ma politico, era composta da tre velivoli.

Il Bell 212, che poi precipiterà con a bordo gli esponenti della casta iraniana, un secondo Bell (a due o quattro pale – Bell 412 – non è chiaro) ed infine un terzo: un Mi-17/171 di fabbricazione russa. Ben più attrezzato non solo per volare al di sopra di quelle montagne, molte delle quali alte più del Monte Bianco. Ma dotato delle attrezzature necessarie per rispondere ad eventuali attacchi nemici. Dei tre velivoli, quindi, Raisi aveva scelto il peggiore. Un elicottero che era stato addirittura acquistato dallo Scià di Persia, Reza Pahlevi, nei lontani anni ’70.

E che da allora era stato scarsamente manutenuto a causa dell’embargo decretato dagli Stati Uniti nei confronti di un regime sanguinario. Embargo, deciso per la prima volta nel 1979 a seguito dell’assalto all’ambasciata americana di Teheran, che prevedeva in modo specifico il divieto di vendere aeromobili e parti di ricambio alle compagnie aeree iraniane. E poi più volte rinnovato fino a comprendere quasi tutto l’Occidente. Date quelle ristrettezze, le uniche revisioni effettuate erano state quelle rese possibili dall’acquisto di materiale taroccato oppure dai pezzi di ricambio ottenuti grazie al reverse engineering. Quella tecnica che prevede di copiare artigianalmente i pezzi da sostituire. Che va bene per i componenti più semplici. Ma quando si tratta di strutture complesse, l’impresa diventa quasi impossibile.

In definitiva un elicottero vetusto, questo quello assegnato al presidente, in cui era del tutto assente la strumentazione elettronica necessaria per far fronte alle difficoltà del viaggio. Che doveva svolgersi in condizioni atmosferiche proibitive, a causa di una densa cortina di nebbia che impediva il volo a vista: unica risorsa di piloti che non brillavano certo per la preparazione e l’esperienza necessaria. Come già era risultato evidente durante la guerra con l’Iraq. Si deve solo aggiungere che quello di Raisi era il suo primo viaggio fuori dai confini del Paese, per recarsi nei pressi dell’Azerbaijan, dove inaugurare la diga di Qiz Qalasi e Khodaafarin. Che la scelta di salire su quell’elicottero fosse, fin dall’inizio, poco saggia è fin troppo evidente. Ma che le responsabilità per quella decisione, almeno per quanto se ne sa, non fosse del Presidente, bensì della security, lo è altrettanto.

Ed ecco allora, una prima riflessione. Ma se l’Iran non è nemmeno di grado di proteggere i suoi più alti dirigenti, dai normali infortuni legati alla semplice logistica, come può pensare di svolgere un ruolo di grande potenza regionale, in grado di condizionare gli assetti dell’intero Medio Oriente? Finora, grazie all’aiuto fornito a Putin ed alle mire espansionistiche del Cremlino, aveva tentato di accreditarsi come un grande protagonista nell’opera di destabilizzazione. Operando in Palestina, nel Libano, in Siria e nel Mar Rosso attraverso il braccio armato di milizie compiacenti, unite sotto la bandiera dello sciismo. Per battere, nello stesso tempo, Sunniti, Israeliani ed i loro alleati occidentali. A questi gruppi aveva fornito armi e finanziamenti. Ma si trattava di ordigni piuttosto rudimentali, a causa della limitata base tecnologica dell’intero Paese.

La prematura fine di Raisi ha, in qualche modo, reso evidente questa debolezza. Dimostrato che il re era nudo. Quella sorta di morte annunciata, a causa dei buchi esistenti nelle più elementari norme di prevenzione (sia materiali che di intelligence), ha messo in luce una debolezza strategica di cui, in futuro, non si potrà non tener conto. Se finora l’Iran ha potuto fare la voce grossa, se gli Houthi tengono, ancora, sotto scacco gran parte del traffico commerciale tra il Far East e il Mediterraneo, questo si deve al fatto che l’Europa, per troppo tempo, si è voltata da un’altra parte, delegando, soprattutto agli Usa, il compito di difendere questo piccolo spicchio di cielo. Scelta indubbiamente opportunistica, ma anche realistica seppure solo fino ad un certo punto. Al di là degli errori compiuti da Washington (tutt’altro che pochi) questo schema poteva funzionare, fin quando gli Stati Uniti avevano un loro interesse da difendere. Ma nel momento in cui anche questo è venuto meno, si è creato un vuoto che anche un “imperialismo straccione” – si sarebbe detto qualche anno fa – è in grado di riempire.

Ma se non fosse stato un semplice incidente? La domanda è tutt’altro che peregrina. E circola con insistenza tra gli addetti al lavoro. Sennonché l’idea di un possibile complotto, come strumento normale di lotta politica in una realtà caratterizzata da una totale assenza di democrazia, non altera minimamente lo schema descritto. Lo colora, semmai, di una tinta ancora più fosca che non modifica, ma peggiora il dato di fondo. Da un lato un Paese troppo debole per poter svolgere quel ruolo di grande potenza a livello regionale, che pure vorrebbe far suo. Dall’altra un Europa, capace di impedirlo, ma troppo distratta nel percepire i rumori di un crescente pericolo. Nell’illusione che il quieto vivere sia una condizione irrinunciabile.

Sarebbe bello e comodo. La condizione ideale in un mondo senza guerra e senza conflitti. Ma purtroppo così non è. Non basta infatti non pensarci affinché le cose non accadano. Esse, al contrario, sono indipendenti dalla volontà di ciascuno di noi ed allora piuttosto che chiudere gli occhi, per poi trovarsi all’improvviso nell’incubo dello scorso 7 ottobre, quando Hamas compì quell’orrenda strage di poveri innocenti, meglio pensarci in tempo. E provvedere. Speriamo che le prossime elezioni europee siano anche la sveglia necessaria per ricominciare a pensare.

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