La minore capacità produttiva americana rispetto a quella cinese nel settore della cantieristica navale potrebbe pesare nella competizione indo-pacifica. Ma ci sono forme di moderazione di questo squilibrio
Nella competizione tra Stati Uniti e Cina trasversale a innumerevoli settori e dimensioni più o meno affini, ci sono alcune aree in cui Washington si trova in particolare difficoltà rispetto al proprio competitor d’oltreoceano. Come nel caso dell’industria navale, un tema di un certo rilievo alla luce delle dinamiche di competizione politico-militare tra le due grandi potenze nella regione indo-pacifica. La distanza esistente tra le capacità dei due Paesi viene resa evidente da alcuni semplici dati: secondo le stime dell’Office of Naval Intelligence statunitense, la Repubblica Popolare avrebbe oggi una capacità di produzione navale duecentotrentadue volte superiore a quella degli Stati Uniti. E mentre nel 2022 la Cina ha prodotto quasi la metà delle nuove navi costruite in tutto il mondo, dai cantieri navali statunitensi sono usciti soltanto lo 0,13% dei vascelli.
A pesare su queste cifre è la tendenza, adottata dagli Stati Uniti sin dal periodo della presidenza di Ronald Reagan, ad adattarsi alle logiche del libero scambio e a non puntare sulla costruzione di naviglio mercantile, a cui si è aggiunto anche il netto taglio alle spese della difesa registrato in seguito al concludersi della Guerra Fredda. Tutto questo mentre Pechino stanziava importanti sussidi statali nel settore della cantieristica navale civile per permettergli di raggiungere una posizione di dominanza, curandosi però che le infrastrutture costruite fossero prettamente dual-use, e quindi utilizzabili anche per la costruzione di vascelli militari.
Nel breve periodo, un’inversione di tendenza appare come impensabile. Diversi fattori contribuiscono infatti a rendere de facto impossibile una rinascita dell’industria navale statunitense. A partire dal già menzionato fattore economico: i vincoli fiscali stanno costringendo la Marina a tagliare le richieste di approvvigionamento, a ritardare i programmi di modernizzazione e a mandare in pensione le navi in anticipo, senza riuscire a rimpiazzarle con nuovi elementi. Il bilancio della Marina per il prossimo anno fiscale prevede lo smantellamento di diciannove navi, contro le sei nuove navi che saranno invece acquisite dalla US Navy. Un’altra questione da non ignorare è la carenza di manodopera specifica: trovare un numero sufficiente di lavoratori qualificati per i cantieri rimane uno dei principali ostacoli all’espansione della produzione. Anche se l’industria navale sta lottando per attrarre talenti, i giovani preferiscono cercare un impiego nei fast food, che offrono stipendi e benefit migliori per i dipendenti di primo livello.
Alla luce di ciò, cosa possono fare gli Stati Uniti per mantenere la deterrenza convenzionale nel Pacifico e prevenire la guerra? Gil Barndollar e Matthew C. Mai, due membri del think tank americano Defense Priorities hanno fornito la loro visione al riguardo in un articolo pubblicato da Foreign Policy. Almeno due sono le cose importanti, secondo gli analisti: comprare missili e ridurre le missioni.
In primo luogo, per gestire il rischio nel breve termine, la Marina e gli altri servizi devono acquistare rapidamente più munizioni, concentrandosi su armi e capacità, non sulle piattaforme che le trasportano. La forza aerea ed eventualmente quelle terrestri, con le loro capacità, potrebbero aiutare a colmare il gap esistente; tuttavia, è necessario disporre di un sufficiente arsenale di munizioni per far sì che queste capacità siano in grado di rimanere operative anche in un contesto di conflitto prolungata e di dinamiche d’attrito. In secundis, è necessario limitare i dispiegamenti navali. Anche se la Marina sta riducendo le sue dimensioni, non sta facendo altrettanto con il numero di missioni. L’elevato ritmo operativo, la carenza di personale e l’invecchiamento della flotta stanno alimentando una crisi di prontezza che sta esaurendo marinai e navi.
“Gli Stati Uniti non possono eguagliare le dimensioni della flotta cinese né a breve né a medio termine”, scrivono gli autori, “la deindustrializzazione, le scelte sbagliate in materia di approvvigionamenti e la fissazione miope della presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente lo hanno dimostrato. Detto questo, la Marina statunitense conserva ancora diversi vantaggi significativi in un potenziale conflitto con la Cina: il dominio dei sottomarini, il tonnellaggio complessivo, l’esperienza nelle acque blu e il sostegno di alleati capaci. Un forte aumento degli acquisti di munizioni congiunte e la fine dell’esaurimento della prontezza di reazione dovuto ai dispiegamenti di presenza in teatri secondari rafforzeranno il vantaggio della Marina durante la potenziale finestra di picco per una mossa cinese su Taiwan nel prossimo decennio. L’alternativa è cupa. Se la deterrenza convenzionale fallisce, si rischia la sconfitta militare degli Stati Uniti o qualcosa di ancora più pericoloso: il confronto nucleare tra le due superpotenze mondiali”.