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Elezioni europee, vi racconto la doppia sfida di Roma. L’opinione di Polillo

Nella Capitale d’Italia è tempo di bilanci in vista delle prossime scadenze elettorali, che bussano alle porte. Al 2026 mancano ancora due anni. Ma il sindaco Roberto Gualtieri ha già preannunciato la sua ricandidatura. Gianfranco Polillo spiega la doppia valenza che le Europee di giugno avranno sulla città di Roma

Le prossime elezioni europee per la città di Roma avranno una doppia valenza. Serviranno, innanzitutto, per scegliere la nuova governance dell’Unione, in una fase così complicata della situazione internazionale. Guerre alle porte tanto sul confine orientale – l’invasione russa in Ucraina – che su quello meridionale, dopo gli assalti di Hamas e la risposta dell’esercito israeliano in Palestina. E sullo sfondo le grandi incognite della futura politica americana, l’irredentismo russo e il gioco sornione della Cina. Senza contare le pruderie di potenze regionali come l’Iran, che rischiano di accendere la guerra di religione tra sciiti e sunniti, nel nome di Allah. Dati, indubbiamente prevalenti.

Ma nella Capitale d’Italia è anche tempo di bilanci in vista delle prossime scadenze elettorali, che bussano alle porte. Al 2026 mancano ancora due anni. Ma il sindaco Roberto Gualtieri ha deciso di bruciare le tappe, preannunciando la sua ricandidatura a sindaco per quella scadenza. Lo ha fatto in una trasmissione radiofonica, che mescola cose diverse, intervenendo lo scorso dicembre a “Un giorno da pecora”. Il dado quindi è tratto. E di questa scelta occorre, pertanto, tener il conto che merita.

E allora ripercorriamo le tappe di quella sua “resistibile ascesa”, dalle passate elezioni in poi. Con un orecchio attento alle polemiche di queste giorni da parte di un’opposizione scatenata, che inveisce contro i presunti eccessi di potere da parte dell’attuale governo. Dalle polemiche sulla conduzione Rai, alle scelte compiute nella gestione delle nomine pubbliche. Fino alla durezza, ritenuta eccessiva, con cui si cerca di contenere le manifestazioni di piazza fin troppo orientate verso lo scontro fisico nei confronti delle forze dell’ordine. Si trattasse di principi non negoziabili, dovrebbero avere una valenza universale. E non stiracchiati a seconda delle circostanze.

Nelle passate elezioni comunali, la coalizione di forze che si batteva per “Gualtieri sindaco”, al primo turno, ottenne il 27 per cento dei suffragi, collocandosi al secondo posto. Al primo posto, con il 30,1 per cento dei voti, risultò essere quella di Enrico Michetti, candidato dal centro-destra. Seguirono quindi Carlo Calenda (19,8 per cento) e Virginia Raggi (19,1 per cento). Nel successivo ballottaggio, Gualtieri ottenne il 60,2 dei suffragi, contro i 39,8 di Michetti, conquistando la fascia tricolore. Nulla da eccepire. Ma anche l’obbligo di meditare sul fatto che la partecipazione elettorale al secondo turno fu, appena, pari al 40,7 per cento. La più bassa tra i 20 Capoluoghi, censiti da Repubblica.

Durante la Prima Repubblica la politica evitava con cura di strafare. Fin dalle elezioni del 1948, Alcide De Gasperi aveva deciso di attribuire alcuni dicasteri di peso – soprattutto quelli di natura economica – a personalità estranee alla DC. Sebbene, allora, il suo partito avesse conquistato più del 48 per cento dei voti. Ne beneficiarono soprattutto le forze laiche di centro. Un precedente destinato a fare scuola, fino a costituire una sorta di regola non scritta, nel nome dell’inclusività e del garantismo.

L’attuale Giunta del Comune di Roma, si compone di 12 assessori: 7 appartengono alle varie correnti dei DS, 3 alle liste collegate, 1 alla sinistra-sinistra e l’ultimo (last but not least) ad un tecnico di area: a metà strada tra lo stesso PD e i 5 Stelle. Gli esponenti del PD vanno dai franceschiniani – il vice sindaco, nonché assessore al bilancio – agli ex di Bersani, alla cultura. Tutte le altre componenti politiche estranee, in quanto perdenti, sono invece rimaste fuori. Ma quello che fa ancora più impressione è il numero dei presidenti di municipio. Su 15, ben 14 hanno la tessera del partito. Solo il presidente del VI municipio fa eccezione, ma in quel territorio a vincere erano stati i “Fratelli d’Italia”.

Altro che “verticale del potere”. A molti la Giunta capitolina somiglia fin troppo ad un soviet ed il Campidoglio ad una specie di Stalingrado. Che si batte – al primo turno i voti del PD furono pari ad appena il 16,4 per cento del totale – contro una città ben più pluralista e secolarizzata. E sempre più refrattaria rispetto alle pure logiche di apparato, tipiche di ogni regime. A giugno, chiuse le urne, si vedrà pertanto se quelle scelte avranno superato la prova del budino, incontrando il favore del pubblico. Se quell’arroccamento si sarà dimostrato essere stato una scelta felice. Il sindaco è determinato: “L’orizzonte del mandato che mi sono voluto dare – ha dichiarato – è decennale”: ma siamo forse oltre l’ottimismo della volontà.

I mali di Roma sono forse antichi come le sue pietre, ma per affrontarli, non diciamo per risolverli, ci vuole ben altro che il trascorrere del tempo. Ci vuole soprattutto una visione, costruita sull’analisi attenta delle sue caratteristiche. Roma non è solo la Capitale d’Italia è soprattutto la più grande metropoli italiana, con un’estensione territoriale che supera di sei o sette volte quella di Milano. Per non parlare delle altre città capoluoghi di regione. Si può gestire una simile realtà avendo a disposizione risorse che sono più o meno identiche – poco più di 6 miliardi di euro – a quelle di Milano, la cui estensione territoriale, di competenza del Comune, è pari a quella di 2 o 3 municipi romani?

Domanda fin troppo semplice di fronte a un problema complesso. Che i trasferimenti erariali a favore di Roma, solo per questo motivo siano insufficienti, è tesi facile da dimostrare. Sono calcolati sul numero di abitanti, come se gli altri parametri (ampiezza del territorio, Km di strade da manutenere, e via dicendo) non contassero. Nel discutere di autonomie differenziate, queste “differenze” dovrebbero avere diritto di cittadinanza. Sempre che del problema vi fosse la necessaria contezza. Cosa che non sembra apparire.
Resta solo da capire perché questo problema non abbia avuto diritto di cittadinanza nella lunga sequela delle sindacature. Con l’avvento della Seconda Repubblica ha pesato, soprattutto, l’idea che Roma fosse il trampolino di lancio per cariche di ben altro spessore. L’esempio francese. Jaques Chirac, che da sindaco di Parigi, dopo essere stato più volte ministro, diventa Presidente della Repubblica. L’idea che ha affascinato tanti esponenti della sinistra italiana e non solo. Da Francesco Rutelli a Gianni Alemanno. Ma l’Italia non è la Francia. Soprattutto Roma non è Parigi.

Esaurita quella fase, si trattava di ricostruire. Di fare un po’ quello che Giuseppe Sala sta facendo per Milano. Mettere da parte dogmi ed ubbie ideologiche di varia natura, e modernizzare la città. A partire dalla profonda riforma dell’amministrazione comunale, del tutto inadeguata e impreparata per affrontare le sfide di una città sprofondata nel declino. Termine eccessivo? Basta leggere il lungo paper della Banca d’Italia (Raffaello Bronzini, a cura di: “L’economia di Roma negli anni duemila – cambiamenti strutturali, mercato del lavoro, diseguaglianze”) per rendersi conto che quel vecchio modello che consentì a sindaci, come Rutelli o Veltroni, di portare a termine il loro mandato non esiste più.

Ci riusciranno i nostri nuovi eroi? Difficile dire. Il tempo stringe. Le elezioni europee alle porte daranno una prima risposta. Se il responso sarà favorevole, la Giunta Gualtieri potrà continuare ad operare. Ma in caso contrario si dovrà cambiare registro. E trovare qualcosa che risponda meglio al carattere composito di una città che, come si è detto in precedenza, non si identifica nel monocolore pidiellino. Ai romani, quindi, agli elettori romani, la responsabilità del decidere. Come del resto hanno sempre fatto. Ma questa volta, forse, con un pizzico di patema in più.



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