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Il voto Ue è la porta sulla seconda metà della legislatura. L’analisi di Orsina

“Quindici anni fa, è arrivata la rottura, una sorta di ribellione contro la politica centrista – ribellione che abbiamo chiamato populismo. Quello che sta accadendo adesso è che una parte di questa ribellione populista, in particolare quella che si colloca a destra, si sta consolidando e sta costruendo una nuova dialettica politica: sta riprendendo forma il conflitto politico con il vecchio establishment centrista da una parte, la destra populista dall’altra”. Conversazione con il politologo Giovanni Orsina

Quello italiano potrebbe essere l’unico governo di un grande Paese europeo a non essere punito dal voto del 9 giugno. La previsione che affida a Formiche.net il prof. Giovanni Orsina, direttore della Luiss School of Government e autore per Rubbettino di “Una democrazia eccentrica. Partitocrazia, antifascismo, antipolitica”, è utile per affrontare uno dei temi più rilevanti delle prossime elezioni europee, ovvero la capacità del presidente del Consiglio di farsi pivot tra le destre continentali che si apprestano ad aprire una fase nuova negli equilibri europei.

Giorgia Meloni ha le qualità politiche, umane, diplomatiche per essere il trait d’union tra le destre che verosimilmente prenderanno più voti rispetto alle europee di cinque anni fa?

Secondo me sì, anche se forse dovrebbe esibire delle caratteristiche di flessibilità ancora maggiori rispetto a quelle che ha esibito finora. Credo che sia equo dire che in questi 18 mesi di governo Giorgia Meloni ha dato mostra di qualità politiche e diplomatiche innegabili. Mi pare che ci siano ancora delle rigidità culturali che, se volesse svolgere un ruolo da trait d’union, potrebbero ostacolarla. Ciò detto, credo anche che possa tranquillamente candidarsi a essere una delle persone forti del contesto europeo, nel quale per altro, in questo momento, di persone politicamente forti e capaci non è che ce ne siano in abbondanza.

L’Italia oggi è più stabile rispetto al decennio scorso?

L’Italia è stata estremamente instabile e ha sempre pagato il prezzo di questa sua instabilità, ma oggi mostra una stabilità non comune legata alla congiuntura politica, non alle istituzioni. E questo mentre altri Paesi europei sono in grande difficoltà. Siamo di fronte, per così dire, a un mondo al contrario: l’Italia è uno dei Paesi più stabili dell’Unione. Fratelli d’Italia è fra i pochi partiti di governo che presumibilmente uscirà dal voto non indebolito, magari anche rafforzato. Non sarà così per Macron e Scholz. Quello italiano potrebbe essere l’unico governo di un grande Paese europeo a non essere punito dal voto.

La mossa di candidarsi personalmente è stata corretta tatticamente?

Dovremmo valutare se porterà davvero più voti. Ma la stabilità politica della quale dicevamo oggi si fonda, oggettivamente, sulla centralità di Meloni. Il sistema politico italiano ha partiti deboli e istituzioni deboli, e dal 1994 si fonda sulla centralità di un essere umano: Berlusconi, Renzi, Salvini, oggi Meloni. Quindi la decisione di Meloni di mettere avanti se stessa anche nel voto europeo, che rappresenta la porta sulla seconda metà della legislatura, è del tutto naturale: dalla sua forza personale dipende, piaccia o non piaccia, la forza della politica italiana sia in Italia sia in Europa.

La sua candidatura come tentativo di cercare di raccogliere più consenso e più forza politica?

Sì, dopodiché vediamo se produrrà risultati. Potrebbe anche non produrne. Però chi si scandalizza di questa cosa dà proprio l’impressione di vivere in un altro mondo. Realisticamente questo è quello che c’era da aspettarsi ed è ragionevole. La politica italiana e anche quella europea oggi funzionano così, sono incentrate sulla forza politica degli individui, e lei sta cercando di acquisire più forza politica possibile.

Vi sarà verosimilmente una primizia nel prossimo Parlamento europeo, molto spostato a destra. Quali sono le cause di questo cambiamento e quali, secondo lei, sono i rischi di una trasformazione così netta rispetto al passato?

Stiamo vivendo una fase storica di riallineamento politico: in Europa veniamo da vari decenni di convergenza fra destra e sinistra intorno a un mix di politiche liberali incentrate sul multilateralismo internazionale, sui diritti individuali, sull’economia di mercato. Questo è molto visibile se si studiano gli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000. I discorsi di Jacques Chirac, ad esempio, sono incredibilmente simili su certi temi a quelli di Tony Blair. La politologia ha descritto questa fase di depolarizzazione: la politica in quegli anni è, per così dire, appassita, il conflitto politico è diminuito, i partiti sono venuti convergendo al centro. Se guardiamo i manifesti elettorali europei di popolari, socialisti e liberali tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 2000, a tratti sono indistinguibili gli uni dagli altri. Gli unici in quegli anni che si distinguevano sono i Verdi, che avevano effettivamente una politica diversa.

Per quale ragione?

Perché in quella fase storica di ottimismo e di centralità del mercato e dei diritti si pensava che la politica fosse quella, non potesse essercene un’altra. Poi, quindici anni fa, è arrivata la rottura, una sorta di ribellione contro questa politica centrista – ribellione che abbiamo chiamato populismo. Quello che sta accadendo adesso è che una parte di questa ribellione populista, in particolare quella che si colloca a destra, si sta consolidando e sta costruendo una nuova dialettica politica: sta riprendendo forma il conflitto politico con il vecchio establishment centrista da una parte, la destra populista dall’altra. Un pezzo di quell’establishment centrista, quella che fa capo al Partito popolare europeo, sta cercando di capire da che parte collocarsi. È un processo storico, ma è un processo anche reso per certi versi inevitabile dal cambiamento storico. La storia oggi reclama politiche di destra, ossia politiche securitarie, e quindi quella destra che nasceva come sfida populista sempre di più si sta trasformando in un pezzo permanente del panorama politico col quale si è costretti a fare i conti.

Con quali conseguenze?

Il rischio più grave è quello della polarizzazione: che questa nuova dialettica politica che sta prendendo forma, invece di assumere una forma fisiologica, come una dialettica fra una destra e una sinistra che si riconoscono reciprocamente legittimità e si alternano al potere, diventi invece una guerra civile. Un po’ quello che vediamo succedere in America: lì la nuova destra e la nuova sinistra sembrano in procinto di prendere le armi l’una contro l’altra. E quello è un rischio gravissimo.

 


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