I negoziati in corso, arrivati a un momentum positivo nei giorni scorsi, stanno collassando. Parte l’evacuazione di Rafah, Israele non vuole barattare la propria sicurezza nazionale. E i rischi di un’escalation tornano
Lo sforzo diplomatico in corso potrebbe non aver convinto il governo di Benjamin Netanyahu, le cui fazioni più estreme ormai usano apertamente la guerra per spingere la loro narrazione ideologica-religiosa — come ha fatto il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, e leader di estrema destra, Itamar Ben Gvir, il quale in più di un’occasione ha ripetuto “che Dio non voglia non attacchiamo Rafah”. L’esercito israeliano ha detto questa mattina ai palestinesi di iniziare a evacuare la porzione orientale di Rafah, segnalando che un’invasione terrestre è imminente. Alla gente è stato detto di trasferirsi a Muwasi, un’area umanitaria vicino alla costa dichiarata sicura da Israele.
La richiesta di evacuazione a Rafah arriva in mezzo ai fragili colloqui di cessate il fuoco e in vista di un’attesa offensiva di terra che Israele ha promesso di intraprendere per mesi per eliminare i restanti miliziani di Hamas — che sarebbero assiepati nella città, dove però si sono rifugiati anche tutti coloro (un milione di persone circa) scappati dai combattimenti al nord della Striscia. Domenica, il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha affermato che Hamas non era serio riguardo a un accordo e ha avvertito di “una potente operazione nel prossimo futuro a Rafah”. L’attacco nella città di confine con l’Egitto provocherebbe un quasi certo aggravamento della crisi umanitaria e una destabilizzazione tattica complessa.
Innanzitutto, salterebbero i colloqui negoziali in corso al Cairo e Doha (e in modo meno esplicito in altre capitali della regione). A Doha è volato in emergenza il capo della Cia, Bill Burns, per un incontro faccia a faccia con il primo ministro del Qatar — che è il Paese che più di tutti, insieme all’Egitto, da cui Burns proveniva, si è impegnato per parlare con Hamas degli oltre cento ostaggi dovrebbe ancora avere in mano (si scrive “dovrebbe” con un senso di tristezza, perché delle persone rapite durante l’attacco del 7 ottobre, che ha dato il via all’attuale stagione di guerra, forse molti sono morti, uccisi dalla guerra o dai loro aguzzini).
Il tentativo in corso è di tenere in vita le trattative che sembravano più vicine del solito a un successo, ma che nella giornata di ieri sono collassate. Se così finisse, non solo non ci sarà una pausa nella guerra e la liberazione di un gruppo delle persone catturate, ma anche il rischio di un ulteriore aggravamento della crisi. Il negoziato si è bloccato sulla “fine della guerra”, che secondo Hamas dovrebbe essere automatica nella seconda fase dell’intesa. Netanyahu dice che è inaccettabile — “Dio non voglia che la guerra finisse adesso”, dice Ben Gvir usando sempre quella stessa formula, giurando che il primo ministro l’avrebbe pagata se avesse accettato qualcosa del genere.
Se i preparativi a Rafah dovessero concretizzarsi in un assalto, il rischio è anche più ampio. L’azione israeliana potrebbe innanzitutto sensibilizzare le varie milizie dell’Asse della Resistenza filo-iraniano e muoverle a ulteriori azioni. Hezbollah potrebbe intensificare il lancio di razzi al nord per rappresaglia, le milizie sciite siriane e irachene potrebbero anche loro voler marcare il senso di vendetta e gli Houthi aumentare il ritmo degli attacchi nell’Indo Mediterraneo.
Gli yemeniti in particolare sembrano i più agitati: dimostrando di combattere per un proprio interesse e di voler utilizzare la guerra a Gaza solo come proxy narrativo, recentemente avrebbero fornito armamenti ad al Qaeda per combattere al sud (contro i nemici separatisti sudisti e contro lo Stato islamico yemenita). Contestualmente, hanno minacciato di colpire ovunque le navi israeliane, “ovunque” i missili (di fabbricazione iraniana) possono arrivare. C’è una questione di reale gittata — legata all’efficacia e all’efficienza degli assetti in mano agli Houthi — ma così dicendo la minaccia si allarga a tutto il bacino del Mediterraneo orientale, anche oltre Suez. E l’attacco a Rafah potrebbe esser occasione per dare una dimostrazione.
C’è poi l’equilibrio regionale. Si è per esempio tornati a parlare con insistenza del “mega-deal” tra Stati Uniti e Arabia Saudita, e Israele avrebbe un ruolo perché dovrebbe (nel senso dell’intesa) normalizzare i rapporti con Riad: l’assalto a Rafah che conseguenze avrebbe? E si altererebbe il piano di relazione con l’Egitto, che da tempo pressa per evitare un attacco in città che scombussolerebbe i complessi equilibri al confine (producendo ondate di profughi)? E ancora, la Turchia, che sta già usando la crisi per i propri interessi, come si muoverebbe? E le dilaganti proteste nei campus americani, oppure le dinamiche che toccano le forze politiche europee, ne risentirebbero?
“D’altra parte però non possiamo nemmeno pensare che la sicurezza di Israele possa essere sotto ricatto”, spiega una fonte da Tel Aviv, preferendo non divulgare il suo nome. “Hamas, e probabilmente il suo leader militare Yayah Sinwar, che non dimentichiamoci ha organizzato la strage del 7 ottobre e dichiarato guerra a Israele, sono nascosti a Rafah. Usano i civili fuggiti come protezione, sperano nella fine della guerra per non essere disarticolati e restare vivi: fattore che in futuro peserà sulla stabilità e sulla sicurezza di qualsiasi cosa sarà della Striscia di Gaza. Israele non può barattare l’interesse strategico con i sauditi con la propria sicurezza nazionale. Non può nemmeno pensare di non proteggersi perché sotto ricatto da Hezbollah, Houthi o milizie siro-irachene, dunque dall’Iran”.