Il fatto che la separazione delle carriere tenda semplicemente a garantire la parità tra accusa e difesa in armonia con l’articolo 111 della Costituzione e col principio della presunzione di innocenza è un’evidenza presa in considerazione solo da una minoranza di commentatori e di giornali d’opinione. Il commento di Andrea Cangini
In reazione ai modi di alcuni ministri, al merito di alcune riforme e soprattutto alle radici politico-culturali del partito di maggioranza relativa, Fratelli d’Italia, si sta creando nel Paese un clima resistenziale francamente esorbitante. Si fa, è il caso di dire, d’ogni erba un fascio, per concludere che in Italia la democrazia sia oggettivamente sotto attacco.
Perno di questo sistema sono la magistratura organizzata e i giornalisti ad essa più vicini. Si fa di conseguenza largo l’idea che la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti cara al ministro della Giustizia Carlo Nordio sia un modo per assoggettare la magistratura al controllo della politica determinando, come ha scritto Donatella Stasio su La Stampa, “il rischio concreto di una deriva antisistema (per non chiamarla autoritaria)”. Segue appello alla mobilitazione degli “avvocati democratici”, evidentemente contrapposti agli avvocati “autoritari” dell’Unione camere penali favorevoli alla separazione delle carriere tra gip e pm. Considerando che l’unicità delle carriere dei magistrati è un’eredità della riforma dell’ordinamento giudiziario varata da Dino Grandi nel 1941, in pieno regime fascista, e che la loro separazione caratterizza invece la gran parte degli ordinamenti delle democrazie occidentali, siamo con tutta evidenza di fronte ad una singolare torsione della realtà a fini politici e/o corporativi.
A lasciare perplessi, e a destare qualche preoccupazione, è soprattutto il fatto che nel calderone polemico in cui ribollono l’evocazione della P2, l’inchiesta giudiziaria ai danni del governatore della Liguria Toti e l’opposizione alle riforme del governo, si vada da più parti identificando la magistratura come un sorta di polizia morale da contrapporre alla presunta deriva autocratica dell’esecutivo Meloni. A leggere la mozione finale del congresso che l’Associazione nazionale magistrati ha tenuto nei giorni a Palermo, ci si imbatte in passaggi come quello che segue: “Dell’ampia discrezionalità immanente all’attività interpretativa i magistrati italiani danno quotidianamente contro al popolo, nel cui nome amministrano la giustizia, con le motivazioni dei loro provvedimenti, che costituiscono il cuore pulsante dell’attività giurisdizionale”. Un vero e proprio appello al popolo in chiave neo giacobina, che naturalmente non è stato rimarcato da nessun giornale tra quelli più politicamente ostili al governo o prudenzialmente affini alla magistratura.
Il fatto che la separazione delle carriere tenda semplicemente a garantire la parità tra accusa e difesa in armonia con l’articolo 111 della Costituzione e col principio della presunzione di innocenza è un’evidenza presa in considerazione solo da una minoranza di commentatori e di giornali d’opinione.