Skip to main content

Tutte le prove che Giorgia deve ancora sostenere. Scrive Polillo

Nel percorso seguito da Giorgia Meloni, un elemento balza agli occhi. La sua capacità di adeguarsi rapidamente alle condizioni date. Una sorta di presunto camaleontismo, come l’hanno accusata più volte i suoi oppositori. Senza capire invece che il pragmatismo è l’arma migliore da utilizzare. Ma ci sono alcune incognite e riguardano proprio la tenuta prospettica di Fratelli d’Italia. Ecco quali nel commento di Gianfranco Polillo

Giorgia Meloni? Ottimo presidente del Consiglio. Capace, innanzitutto di interpretare e seguire le prescrizioni di cui all’articolo 95 della nostra Costituzione: “Il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile”. Coordinando l’attività dei singoli ministri.

In varie occasioni è intervenuta, correggendone l’azione, quando questi ultimi avevano preso decisioni quanto meno discutibili. Come nel caso più recente del redditometro. Oppure per gli extra profitti delle banche quando le norme che prevedevano  la possibilità di una tassazione aggiuntiva lasciavano intravedere più l’ipotesi di un vero e proprio esproprio che non quello di un giusto risarcimento. Ed il fatto che, ancora oggi, Giuseppe Conte martelli su questo argomento, denunciando un cedimento nei confronti dei “padroni del vapore”, dimostra quanto quella revisione fosse stata giusta e necessaria.

Sul piano internazionale non è stata da meno. Ha superato gli anatemi che le erano stati lanciati contro: l’accusa di un fascismo ormai alle porte che avrebbe dovuto essere sterilizzato da un “cordone sanitario” costruito in tutte le sedi politiche ed istituzionali. L’invocazione ad isolare l’Italia non solo non è riuscita, ma i pifferai che avevano cavalcato questa strategia sono stati costretti a rinfoderare i propri strumenti e ritornare da dove erano venuti. Eppure non era stato facile vincere questa partita. Al di là della forza politica dei suoi avversari (comunque rilevante), pesavano sul piatto della bilancia le scelte compiute in precedenza. Soprattutto il fatto di essere il leader di un fronte conservatore (Ecr European Conservatives and Reformists), nato in contrapposizione alle principali famiglie europee: quelle dei popolari e dei socialdemocratici. Collocazione destinata non certo a favorire possibili intese e linee di dialogo.

Ed invece da Joe Biden a Ursula Von der Leyen, con sommo dispiacere per i suoi detrattori, i rapporti si sono intensificati. Le sue stesse frequentazioni con Victor Orban, quel presidente ungherese troppo vicino a Putin ed ora, almeno a quanto si sussurra, a Donald Trump, pur tra mille difficoltà qualche risultato l’avevano prodotto. Come ad esempio la rimozione del veto sull’ingresso della Svezia nella Nato. Battaglia tutt’altro che definitiva, visto che ancora oggi è sempre Orban a bloccare i nuovi aiuti a favore dell’Ucraina: sia il fondo di 5 miliardi che quello di 2,7 presi dagli assets russi immobilizzati nelle banche europee. Ma, in Europa, si sa, ogni giorno ha le sue pene ed il fatto che, nonostante tutto, le porte a favore di Zelensky siano ancora aperte è un piccolo grande miracolo. Che potrebbe destare ulteriori sorprese. A dimostrazione che per ottenere un qualche risultato non servono le facili accuse, ma una paziente tessitura delle relazioni internazionali.

Nel percorso seguito da Giorgia Meloni, un elemento balza agli occhi. La sua capacità di adeguarsi rapidamente alle condizioni date. Ai condizionamenti esterni. Una sorta di presunto camaleontismo, come l’hanno accusata più volte i suoi oppositori. Senza capire invece che il pragmatismo, nelle difficili condizioni interne ed esterne all’Italia, è l’arma migliore per navigare nelle “acque incognite” – direbbe il Machiavelli – di un mare in tempesta. Da questo punto di vista, la duttilità dimostrata è stata notevole. Basti pensare a quelli che erano i 10 punti fissati nel 2014, quando nacque il partito: blocco dell’immigrazione, abbandono dell’euro, dazi per difendere il made in Italy, riapertura case d’appuntamento, provvidenze per le famiglie numerose, controllo del gioco d’azzardo, elezioni dirette del Capo dello Stato. E vedere quel che resta oggi di quelle proposte. Nel rapporto dialettico tra innovazione e conservazione è stato il primo elemento dell’equazione a prevalere. Cosa non compresa da chi, anche a livello internazionale, la rimprovera di “essersi rimangiata tutto”: dal suo originario Euroscetticismo, fino alle critiche allora rivolta contro la Nato. Insomma: “Phoney (falsa) Meloni”, come continua a ripetere, per quel che vale, Steve Bannon. Una volta ascoltato consigliere di Donald Trump. Oggi non sapremo dire.

Quindi, ricapitolando: bene la politica interna, bene quella estera. Ma nonostante le grandi difficoltà delle situazioni economica e finanziaria, stiamo forse vivendo nel migliore dei mondi possibili? Fosse così staremmo a cavallo. Ed invece c’è qualcosa che inquieta. Anche se, in apparenza, tutto sembra andare per il verso giusto. Le incognite riguardano proprio la tenuta prospettica di Fratelli d’Italia: un partito cresciuto troppo in fretta se si considera che in pochi anni, è passato dal 6,5 per cento (elezioni europee del 2019) al 26 per cento delle ultime politiche (2022). Soglia che dovrebbe rappresentare il benchmark della prossima tornata elettorale. Crescita talmente rapida che potrebbe essere foriera di un’intrinseca fragilità.

Nella storia italiana più recente, abbiamo avuto altri casi di inaspettate quanto improvvise ascese elettorali. A partire da quella dei 5 Stelle che, nel 2013, alle prime elezioni politiche nazionali ottenne il 25,5% dei voti, per la Camera ed il 23,8% per il Senato. Prima di quella data una lunga gestione, iniziata quasi 10 anni prima con la nascita del primo meetup, nel 2003. Successo facilmente spiegabile a seguito delle politiche di austerity imposte dall’Europa e, in Italia, fatte proprie dal Governo Monti. Politiche – ironia della sorte – che non ottennero i risultati sperati in termini di contenimento del deficit e riduzione del debito. Ma che deflazionarono l’economia italiana incidendo profondamente sulle condizioni di vita dell’elettorato. Che non esitò a vendicarsi, votando in massa per gli uomini di Beppe Grillo e Casaleggio. Il grande balzo, nelle elezioni del 2018, fino al tetto del 32 per cento sia alla Camera che al Senato. E la palma di essere diventato il primo partito politico italiano.

Fu, comunque, una vittoria di Pirro. Chi aveva votato contro corrente non condivideva necessariamente le pulsioni ambientaliste, il massimalismo parolaio di tante affermazioni del Movimento. Si era trattato, invece, di un voto di protesta e di una speranza, per porre fine ad un tran tran politico, che aveva mostrato tutto il suo fallimento. Per mantener fede a quelle aspettative occorreva avere a disposizione un partito all’altezza dei tempi e della sfida. Ma così non era. Ed il risveglio, il duro risveglio, fu immediato. Già dopo il primo anno dell’esperienza giallo-verde (Di Maio-Salvini), nelle elezioni europee del giugno 2019 il crollo fu vistoso. Il peso politico del Movimento si dimezzò (17,1% dei voti) a tutto vantaggio della Lega di Matteo Salvini. Che, pur facendo parte della stessa coalizione, era stato più partito d’opposizione che di non governo. Ottenendo un premio forse insperato con un salto dal 17 per cento dei voti (elezioni politiche del 2018) al 34,3 per cento.

Un capitale politico enorme si concentrava quindi nelle mani di uno dei partiti del centro – destra, togliendo spazio a Silvio Berlusconi. L’operazione tentata dalla Lega era stata, al tempo stesso, furba – passaggio da un partito regionale ad uno nazionale – ma anche maldestra. Aveva raccolto coloro che in passato si erano candidati con le altre formazioni del centro destra, ma senza coinvolgerli direttamente nella gestione della linea politica che rimaneva saldamente concentrata in Via Bellerio. Da qui un piccolo corto circuito, destinato tuttavia ad avere un effetto a cascata sull’intero elettorato. Specie quello non militante ancora alla ricerca di una rappresentanza politica adeguata al proprio modo di sentire. E del tutto refrattario di fronte a slogan che evocavano, nelle migliori delle ipotesi, il bel tempo andato. E così nello spazio di qualche anno quel capitale andò disperso, al punto che nelle elezioni politiche del 2022 il risultato raggiunto fu pari ad appena l’8,8 per cento sia alla Camera che al Senato.

La scelta dell’elettorato a favore di Giorgia Meloni rappresenta, quindi, una sorta di ultima spiaggia. Fallisse anche quest’esperimento il sistema politico italiano, che è comunque fondamento di democrazia, ne uscirebbe a pezzi. Ma affinché tutto ciò non si verifichi è necessario che Fratelli d’Italia sappia rappresentare l’intero universo elettorale che a lui si è affidato. Dimostri di avere una cultura politica aperta ed inclusiva. Che non sia solo conservazione e tradizione. Nella storia d’Italia, del resto la destra ha avuto sempre questa caratteristica. Quella storica costruì le fondamenta dello Stato unitario e lo stesso fascismo fu una miscela di modernismo e richiamo alla storia più antica.

C’è qualche dubbio in proposito? Difficile negarlo. Fratelli d’Italia è nato sull’onda di una cultura non solo minoritaria, ma per anni relegata in spazi bui. Spesso confinata dal predominio di quelle dominanti. Una cultura che è riemersa a seguito dei mutamenti intervenuti negli assetti più profondi di una modernità, per alcuni versi malata. Si pensi alla crisi della globalizzazione, i cui principali vantaggi in termini geopolitici sono stati appannaggio di uno degli antagonisti storici dei regimi democratici. Come la Cina di Xi Jinping. Oppure all’esaltazione delle teoria del gender – come nel gay pride – che sta determinando fenomeni di rigetto sia in Occidente che in Oriente: le prediche di Kirill, patriarca di Mosca e di tutta la Russia. Gli esempi potrebbero continuare, ma basta guardarsi attorno. Esiste quindi una ragione profonda della sua riemersione e riaffermazione. Ma anche una sua provvisorietà. Che potrebbe dimostrarsi fatale qualora prevalesse un puro sentimento identitario, destinato a tradursi in un ideologismo. Di cui l’Italia non ha certo bisogno.

×

Iscriviti alla newsletter