Il nome della premier sulla scheda per le europee è una strategia comunicativa che pagherà. Il Pd, con i cartelloni e dopo la discussione sanguinosa sull’inserimento del nome della leader nel simbolo, rischia di non entusiasmare l’elettorato. Il pentastellati più coerenti, Calenda in testacoda mentre Renzi balla sulla soglia di sbarramento. Conversazione con il docente ed esperto di comunicazione, Luigi Di Gregorio
È una battaglia a colpi di slogan e cartelloni. Più o meno riusciti. La campagna elettorale per le europee segue più strade, anche in relazione al leader che la porta avanti. La scelta del presidente del Consiglio di indicare solo il nome, “Giorgia”, sulla scheda elettorale è una “ottima scelta”, mentre gli slogan del Pd sono “un retaggio da partito novecentesco”. E il Movimento 5 Stelle? “Ha fatto una scelta ibrida, che comunque lo distingue dai dem”. Sono alcune delle analisi che Luigi Di Gregorio, docente di comunicazione politica all’Università della Tuscia, affida a Formiche.net.
Per votare Meloni e Fratelli d’Italia, basterà scrivere Giorgia sulla scheda. Non le sembra una scelta un po’ propagandistica?
In realtà si tratta di una decisione estremamente efficace, che peraltro ha una ricaduta pratica molto utile: azzera la possibilità di trovarsi voti nulli. Gli elettori potranno scrivere: Giorgia, Giorgia Meloni o Meloni e voteranno comunque lei e il partito che rappresenta. Peraltro non è il primo caso di “personalizzazione” di una campagna politica. Basta pensare a Renzi. Ci sono, poi, altri due aspetti da tenere in considerazione: una buona parte di elettorato conosce Meloni per nome. E sceglie di votare lei quasi mossa da un moto di affetto. Da ultimo, ormai il “brand” di FdI corrisponde alla figura del premier. È sostanzialmente una sovrapposizione.
Arriviamo al Pd, reduce da una discussione fratricida sull’inserimento del nome del leader nel simbolo. Diversamente dai partiti di centrodestra, i dem hanno puntato sugli slogan e non sui volti. Funziona?
È una decisione che rispecchia molto bene la tradizione di un partito dal retaggio novecentesco, da sempre allergico alle leadership troppo esposte. La discussione sull’inserimento o meno del nome nel simbolo è stata sanguinosa e, dopo la levata di scudi interna, Elly Schlein ha dovuto desistere e fare marcia indietro all’ultimo. In un’elezione a preferenze, è rischioso puntare solo sugli slogan da cartellone piuttosto che sulle persone. Vedere un volto suscita emozioni, mentre leggere una scritta non ha lo stesso impatto sull’elettorato. Fermo rimanendo che non si può neanche più sfruttare la leva della componente ideologica per orientare il voto.
Arriviamo ai grillini. Ieri Carlo Calenda, riportando un cartellone elettorale del Pd, ne stigmatizzava l’ambiguità sul sostegno all’Ucraina, riconoscendo invece ai pentastellati una maggiore coerenza. È così?
Sì, è così. Il Movimento 5 Stelle ha fatto, comunicativamente, una scelta “ibrida”. Il leader Giuseppe Conte ha deciso di non candidarsi e l’ha fatto in qualche modo per distinguersi dagli altri, utilizzando questa scelta come clava verso i competitor. La parola “pace” inserita nel simbolo non sposta nulla, a mio modo di vedere ma sicuramente indica una linea di coerenza con le posizioni – su Ucraina e Medio Oriente – che il Movimento 5 Stelle ha sempre tenuto.
Roberto Vannacci domina tutte le circoscrizioni come indipendente della Lega. Una mossa incendiaria di Salvini destinata a far deflagrare il partito o può essere una carta vincente?
Il fatto che per la prima volta da quando Matteo Salvini è segretario federale del partito si siano levate – pubblicamente – voci critiche rispetto alla candidatura del generale Vannacci la dice piuttosto lunga sul clima che si respira. È la dimostrazione plastica di una leadership logora. Paradossalmente, se Vannacci dovesse ottenere un risultato strabiliante, potrebbe essere un problema interno alla Lega. A ogni modo il disegno è chiaro: cercare di prendere un voto in più rispetto a Forza Italia che, al contrario del Carroccio, grazie alla leadership moderata e rassicurante di Antonio Tajani sta riprendendo terreno.
In questo contesto, che “spazio” anche comunicativo prevede per i partiti più piccoli?
Il leader di Azione, Carlo Calenda, ha fatto il classico testacoda. Una mossa abbastanza avventata, benché – considerando il personaggio – abbastanza prevedibile. Credo, comunque, che questo atteggiamento a lungo andare non pagherà sotto il profilo elettorale, ne tantomeno sotto quello comunicativo. Renzi balla sulla soglia di sbarramento, mentre paradossalmente Avs ha inferto un colpo duro al Pd con la candidatura di Ilaria Salis, che aveva declinato l’invito di Schlein.