L’impiego nel settore pubblico non sembra rappresentare più il posto più ambito. Al di fuori della Pa vi sono infatti situazioni più appetibili per lavoratori vecchi e nuovi. E proprio su questo si dovrebbe andare ad agire
A fare notizia è sempre l’uomo che morde il cane. Così, ieri, un grande quotidiano è uscito con un titolo d’apertura (“Posto fisso non piace ai giovani”) che introduceva una serie di servizi dedicati al “desencanto” per il lavoro sicuro nel pubblico impiego. Indubbiamente l’idea di dedicare un ampio spazio all’argomento, con dati e servizi, sarà venuta anche tenendo conto del fatto che la Cgil sta raccogliendo le firme per un referendum abrogativo di norme di legge che sono la causa – è l’incubo di Maurizio Landini – di una “precarietà dilagante”. Ovviamente è sempre sbagliato generalizzare, perché, come emerge negli approfondimenti del quotidiano, anche nel pubblico impiego non tutte le amministrazioni sono uguali e in qualche modo si fanno concorrenza tra di loro in base al tipo di mansioni che si è chiamati a svolgere e ai trattamenti economici percepiti. I posti nell’Inps e nelle Agenzie della finanza rimangono appetibili, mentre nessuno può stupirsi del fatto che le guardie carcerarie sono notevolmente sotto organico. Viene poi segnalata la difficoltà di trovare personale adeguato e disponibile per gli Ispettorati del Lavoro. È opportuno sottolineare questa carenza, proprio perché ogni volta che succede un grave incidente sul lavoro, la prima critica che viene rivolta al governo in carica chiama in causa la scarsità di efficaci controlli a causa di un numero insufficiente di Ispettori in organico, soprattutto di carattere tecnico (pare che siano appena 800 in tutto l’INL). Basti pensare, ad esempio, che nel corso del 2022 l’amministrazione si impegnava molto per realizzare un concorso per numerose assunzioni di ispettori. E’ successo però che, in seguito al cambiamento di governo, vi è stato un ritardo nell’immissione in ruolo che ha determinato la rinuncia di molti vincitori che nel frattempo avevano trovato altri posti di lavoro, magari nei settori privati. Dal Conto annuale del Pubblico impiego della Ragioneria generale dello Stato risulta che soltanto nei ministeri, si sono persi 40mila dipendenti nell’arco di dieci anni. Mentre nei Comuni la perdita è stata di oltre 60mila addetti. E i concorsi pubblici non sembrano attrarre particolarmente i giovani (e meno giovani) alla ricerca di un’occupazione. Vi sono concorsi che realizzano il solito pienone, altri che vanno deserti. In controtendenza -davvero incomprensibile visto il declino demografico che interessa le coorti più giovani – il settore della scuola che ha oggi 200mila occupati in più.
Dal 2008 è iniziato il declino dell’impiego pubblico, nel senso che gli fu caricato addosso l’onere della crisi finanziaria prima, del debito sovrano poi. Ciò ha significato almeno dieci anni di apnea: blocco dei contratti e del turnover, misure di prepensionamento nel senso che le amministrazioni avevano la facoltà di mandare in quiescenza i dipendenti una volta che avessero raggiunto 40 di servizio e fossero in grado di prendere la pensione anticipata. Si arrivò persino a scaglionare il Tfs in rapporto alla sua entità; un problema che non è ancora risolto nonostante le raccomandazioni della Consulta. Un’altra tegola è arrivata da quota 100, in seguito alla quale sono stati sguarniti importanti come la scuola e la sanità, affrontando così con le strutture depotenziate lo scoppio della pandemia.
Essendo l’età media dei dipendenti pubblici pari a 51,4 anni (era 47 anni nel 2007) è necessario mettere in conto nel giro di qualche decennio un esodo biblico dalla Pa a causa del pensionamento, anche se è presumibile un’inversione di tendenza nelle politiche previdenziali di prossimi anni rispetto al lassismo tradizionale del pensionamento facile. Occorrerebbe poi tenere conto di un dato che sembra essere ignorato nel dibattito: il processo di digitalizzazione della Pa produrrà degli effetti sul fabbisogno del personale, nel senso che le nuove tecnologie garantiranno un effetto sostitutivo sia nell’organizzazione del lavoro che degli addetti. Non è difficile rendersene conto: basta vedere gli effetti della informatizzazione sugli organici in un grande Istituto come l’Inps, che in questo campo è stato all’avanguardia.
Ma c’è un altro problema. Nel pubblico impiego c’è più o meno la stessa crisi sul verante dell’offerta che si riscontra in generale con riguardo a tutto il mercato del lavoro, compreso quello privato. La crisi dell’occupazione sul versante dell’offerta non deriva soltanto dalla mancanza delle professionalità richieste (per responsabilità di un inadeguato sistema formativo e di un inefficiente modello di politiche attive), ma dal dato ‘’bruto’’ delle persone che non essendo nate o essendolo in misura inferiore al fabbisogno e al numero delle generazioni precedenti non sono presenti nel mercato del lavoro. In un Focus di Adapt viene in evidenza che tra il 2013 e il 2023 si è passati da un eccesso di offerta di lavoro (alto tasso di disoccupazione) ad un eccesso di domanda di lavoro (alto tasso di posti vacanti). Con un’elevata disponibilità di posti di lavoro ma una ridotta offerta di manodopera, le imprese devono affrontare notevoli sfide nel soddisfare la propria domanda di lavoro. Il Rapporto Excelsior-Unioncamere dà conto mensilmente di questo gap, in forza del quale le aziende private denunciano di essere in grado – con variazioni rispetto alle qualifiche – di soddisfare solo la metà delle assunzioni occorrenti.
Nel 2023, la fascia dei giovani compresi tra i 15 e i 34 anni registrava circa 5,3 milioni di occupati (45,0%), mentre 829 mila erano alla ricerca di un’occupazione (6,9%) e 5,7 milioni rientravano nella categoria degli inattivi (48,1%). Nello stesso anno tra gli adulti di età compresa tra i 35 e i 49 anni 8,7 milioni risultavano impiegati in un’attività lavorativa (76,3%), 647 mila erano disoccupati (5,6%) e circa 2 milioni non erano né occupati né stavano cercando attivamente un lavoro (18,1%).Sempre nel 2023 nella fascia degli over 50 circa 8,7 milioni erano occupati (62,7%), 455 mila rientravano tra i disoccupati (3,3%) e quasi 4,7 milioni erano considerati inattivi (34,0%). Secondo il Rapporto Istat 2023, una parte rilevante del cambiamento di lungo periodo nella struttura demografica, avviato da tempo, si realizzerebbe già tra il 2021 e il 2041: in questo ventennio, i residenti nella fascia di età fino ai 24 anni si ridurrebbero del 18,5 per cento, perdendo circa 2,5 milioni e la popolazione adulta tra i 25 e i 64 anni scenderebbe di 5,3 milioni (-16,7 per cento).
Crescerebbe invece di quasi un milione di unità la popolazione tra i 65 e 69 anni (+27,8 per cento). Quest’ultima fascia di età, per l’effetto dello spostamento in avanti dell’età attiva e di pensionamento previste dall’attuale quadro normativo, sarà sempre più presente nel mercato del lavoro, con conseguenze negative sull’impiego di capitale umano e la disponibilità di competenze, specie di tipo digitale. Nonostante l’apporto della coorte più anziana, per la classe 25-69 si stima una riduzione del 12,3 per cento, mentre aumenterebbero di 3,8 milioni (+36,2 per cento) gli anziani di 70 anni e più, che nel 2041 comprenderanno la generazione del baby boom del secolo scorso.
In conclusione piuttosto che inseguire, come si fa spesso, le propensioni è opportuno tenere conto degli effetti reali. Quando finalmente venne a scadenza dopo 500 giorni il blocco dei licenziamenti durante la pandemia, i sindacati temevano almeno due milioni di licenziamenti; ci furono centinaia di migliaia di dimissioni. Anche allora si teorizzarono fenomeni di carattere sociologico (la grande fuga) attinenti alle nuove aspettative delle persone rispetto al lavoro. Ben presto si scoprì che la ragione principale non era la fuga dal lavoro, ma la consapevolezza che vi erano a disposizione posti migliori. Infatti, i presunti ‘’nuovi figli dei fiori’’ si reimpiegarono nell’arco di un periodo molto breve. Pertanto, il posto fisso rimane anche oggi un obiettivo appetibile, ma non è più competitivo come poteva essere in altri tempi.