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Perché la decisione della Corte dell’Aja non cambierà le mosse di Israele su Rafah

La richiesta della Corte di giustizia internazionale per fermare l’offensiva di Rafah è rumorosa e complica ulteriormente l’immagine internazionale di Netanyahu. Ma Israele molto probabilmente non la rispetterà, perché intende andare fino in fondo contro Hamas

La Corte internazionale di giustizia (Icg) ha emesso oggi, venerdì 24 maggio, un’ordinanza che chiede a Israele di interrompere l’operazione militare a Rafah, città meridionale della Striscia di Gaza in cui – secondo le informazioni di intelligence israeliane – sono assiepati gli ultimi e più forti battaglioni di Hamas. Il gruppo terroristico, che ha dato via alla stagione di guerra con il macabro attentato del 7 ottobre, è tornato in attività in altre aree dell’enclave palestinese, ma si ritiene che parte del coordinamento e delle riserve sia rintanato a Rafah. Dove però ci sono anche migliaia di civili (circa un milione secondo le stime) che sono fuggiti dai combattimenti nelle aree più a nord.

La mossa della Corte si lega al potenziale disastro umanitario che seguirebbe un’operazione di terra su larga scala, e che aggraverebbe ulteriormente una situazione definita “disastrosa”. È il primo ordine del genere sulla guerra a Gaza, dove più di 35.000 palestinesi sono stati uccisi (stando ai dati del ministero della Salute locale, guidato da Hamas). Ora Israele ha teoricamente tempo un mese per presentare ai giudici documenti in cui prova di aver avviato le misure richieste. È molto probabile che nulla cambierà, compreso la situazione di isolamento che vive l’esecutivo israeliano.

La misura della Corte, che nella sede dell’Aja ha iniziato a discutere la questione a gennaio, aumenta significativamente la pressione internazionale su Israele per fermare gli ultimi combattimenti a Gaza, dopo che un’altra misura – quella del procuratore capo della Corte penale internazionale – aveva richiesto la disposizione di un mandato di arresto contro il primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant, e la leadership di Hamas, per i crimini commessi durante il conflitto.

Se da un lato pratico – e militare – la decisione dell’Aja ha potere limitato, da quello politico ha un peso. Dialogare con Netanyahu e con il governo che rappresenta sta diventando di fatto sempre più complicato, e diversi partner stanno da tempo soffrendo la situazione. Sebbene pubblicamente la difesa di Israele stia continuando da parte della maggioranza degli attori occidentali, iniziano a marcarsi dinamiche esplicite e simboliche come la decisione di Spagna, Irlanda e Norvegia di riconoscere “lo Stato Palestinese”, annunciato due giorni fa – mossa tecnicamente quasi priva di concretezza, ma ricca di messaggi contro il governo israeliano (e sulle divisioni europee).

La prima conseguenza che la decisione odierna potrebbe essere di riflesso, e riguardare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove è possibile che la situazione venga presa come opportunità per avanzare una nuova risoluzione per la richiesta di cessate il fuoco immediato. Potrebbe essere mossa da Paesi che hanno vari generi di interessi sul conflitto, come alcune nazioni arabe o musulmane, e assistita da Russia o Cina. A quel punto gli Stati Uniti – che stanno decidendo come reagire alla richiesta di mandato di arresto contro Netanyahu – dovranno disporre una contromossa (perché potrebbero essere costretti a non porre il veto alla risoluzione).

La sentenza emessa questo pomeriggio cita funzionari onusiani che hanno identificato come altamente problematica l’operazione militare terrestre israeliana su Rafah – e dunque qualsiasi dinamica successiva al Palazzo di Vetro potrebbe essere collegabile, visto anche che la Icj è il più importante tribunale delle Nazioni Unite. Inoltre si afferma di non essere convinti che gli ordini di evacuazione e le altre misure adottate da Israele siano sufficienti a proteggere i civili a Rafah. Nel pratico, il tribunale internazionale ha anche invitato a Israele a riaprire immediatamente il valico di frontiera di Rafah, che i militari avevano conquistato all’inizio del mese, e di permettere a qualsiasi commissione d’inchiesta internazionale di entrare nella Striscia di Gaza.

A fine dicembre il Sudafrica ha presentato una causa alla Corte internazionale di giustizia, accusando Israele di aver violato i suoi obblighi ai sensi della Convenzione sul genocidio del 1948. Il tribunale ha affermato che le azioni di Israele “hanno carattere genocida perché mirano alla distruzione di una parte sostanziale” della popolazione palestinese di Gaza. Israele ha respinto le accuse. C’erano stati due giorni di udienza, Pretoria chiedeva di emettere misure provvisorie urgenti, ma si prevede che il caso richiederà anni.

In quell’occasione il tribunale ha ordinato a Israele di intraprendere azioni per evitare l’aggravarsi della crisi umanitaria nella Striscia, ma non ha ordinato all’esercito israeliano di fermare completamente l’offensiva come accaduto oggi, con una decisione che rientra in quelle “misure provvisorie urgenti”. “Nessun potere al mondo fermerà Israele dal proteggere i suoi cittadini”, fa sapere un portavoce del governo israeliano – anticipando che la richiesta della Corte potrebbe non avere seguito sul campo.


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