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IA, è veramente il primato normativo quello di cui l’Italia ha bisogno? Scrive Zecchini

Sarebbe stato molto più proficuo detenere un primato nell’avanzamento di questa tecnologia e soprattutto nella sua diffusione a largo raggio, tra le imprese, la Pubblica amministrazione e i cittadini. Ma su questi versanti il Paese avanza con difficoltà e non appare in linea con i progressi dei più rilevanti partner europei. L’analisi di Salvatore Zecchini

Nei giorni scorsi il governo ha varato il disegno di legge che mira a disciplinare lo sviluppo e l’applicazione di una delle più dirompenti nuove tecnologie, l’Intelligenza Artificiale (IA). In realtà nel mirino è soprattutto quella forma che si chiama IA Generativa, che tanto scalpore e inquietudini sta generando nella società. Il Ddl si pone una triplice finalità: fissare i principi di base, definire il perimetro di regole entro cui il suo impiego è consentito, e vigilare sui rischi per l’economia e la società con il corollario di pesanti sanzioni per le violazioni.

Da parte governativa si tiene a sottolineare che con questo atto il governo è il primo a legiferare in materia, ma forse si fa riferimento all’ambito europeo, perché negli Usa sono già state presentate al Congresso tre proposte di normativa in materia, tra cui da ultima una dal titolo “Future of Artificial Intelligence Innovation Act of 2024”.

L’approccio americano si distanzia da quello italiano, che è una declinazione o attuazione di quello europeo, in quanto intende essere “leggero” (soft law), basato su una combinazione di standard volontari, partenariato pubblico-privato, le migliori pratiche e norme di legge (hard law). La differenza fondamentale sta nello stesso obiettivo da perseguire, laddove si enuncia che la disciplina “deve massimizzare il potenziale e lo sviluppo dell’IA a beneficio di tutti i soggetti coinvolti” (gli stakeholders). Nel testo italiano ed europeo, invece, l’enfasi è innanzitutto sui rischi e sulla loro limitazione e controllo.

Tralasciando questa fondamentale diversità d’impostazione, è veramente il primato di tipo “normativo” quello di cui l’Italia ha bisogno? Sarebbe stato molto più proficuo detenere un primato nell’avanzamento di questa tecnologia e soprattutto nella sua diffusione a largo raggio, tra le imprese, la Pubblica amministrazione e i cittadini. Ma su questi versanti il Paese avanza con difficoltà e non appare in linea con i progressi dei più rilevanti partner europei. L’impressione è quindi che si sia prodotto un elegante testo normativo prima ancora di mettere in campo un forte impulso per portarsi al passo dei partner.

Il testo legislativo include principi e requisiti certamente meritevoli di tutela, ma che non sempre si conciliano con il modus operandi dell’IA. Alcune prescrizioni non implicano vincoli allo sviluppo della tecnologia, ad esempio quella che obbliga a segnalare chiaramente i prodotti dell’IA Generativa per non carpire la buona fede di coloro a cui sono destinati. Altre appaiono particolarmente vincolanti, limitative e di difficile osservanza. Una stretta applicazione di questi principi, particolarmente se affidata a organi poco preparati in materia, rischia di limitare lo sviluppo e la diffusione di questa tecnologia, col risultato di mettere il Paese in una posizione di svantaggio nel competere con i maggiori concorrenti, che comprendono oltre agli Usa, la Cina ed altre economie emergenti.

Ad esempio, come assicurare la trasparenza, correttezza e attendibilità dei processi che conducono a un determinato risultato del tipo predittivo oppure valutativo se gli stessi autori dell’algoritmo non riescono a spiegare il prodotto? La conseguenza più probabile sarebbe che quegli algoritmi verrebbero scartati riducendo le possibilità di sfruttarne il potenziale. Analogamente, l’osservanza di quei principi nelle banche dati potrebbe limitarne l’uso se un’impresa oppure organizzazione la derivasse dalla sua clientela, o i soggetti con cui entra in contatto, o il suo personale nel caso di grande impresa. Se la loro composizione fosse distorta in una determinata direzione, gli algoritmi tenderebbero a riprodurre la stessa distorsione nei risultati, né il ricorso al criterio di proporzionalità potrebbe sanare questa stortura. Il problema si pone in particolare nei campi della finanza e delle assicurazioni mediche, laddove le compagnie utilizzassero gli algoritmi di IA predittiva per stimare il grado di rischio del potenziale cliente e lo usassero per selezionare la clientela.

In generale, resta da risolvere il caso di quelle imprese che utilizzano algoritmi e banche dati che rispecchiano regole e dati di Paesi che applicano criteri differenti dal nostro. I loro sistemi dovrebbero essere sottoposti a complessi scrutini da parte delle autorità italiane con effetti disincentivanti sulla loro adozione. Quanto più stringente è la disciplina del settore tanto più complessa è la procedura di certificazione degli algoritmi. Possono, quindi, derivarne costi aggiuntivi e rallentamenti nella diffusione della IA.

Benché posto in seconda linea, il Ddl riconosce ed intende sostenere l’impiego dell’IA per migliorare la produttività, la competitività, la nascita di nuove iniziative economiche, l’avanzamento del progresso tecnologico ed ottenere maggiore efficienza nelle pubbliche amministrazioni, anche nella selezione dei modelli di IA. Il cardine di questa politica è una nuova Strategia nazionale per la IA, che è affidata alla nuova struttura di governance accentrata presso la Presidenza del Consiglio. Questa si avvale del contributo di due autorità indipendenti, quella per la digitalizzazione e quella per la cybersecurity, nelle funzioni di accreditamento dei sistemi di IA, e nel coordinamento e monitoraggio dell’attuazione della strategia nella sfera pubblica. Sono, altresì, previsti spazi di sperimentazione normativa in collaborazione con le imprese, un aspetto che serve a bilanciare in parte la severità delle sanzioni previste in casi d’inosservanza delle norme.

Particolarmente rilevante è aver indicato tra gli obiettivi strategici la collaborazione pubblico-privato nel far avanzare e diffondere questa tecnologia. Altrettanto importanti sono le previste deleghe al governo per l’emissione di decreti legislativi diretti a sostenere l’alfabetizzazione e formazione delle competenze per tutti i potenziali utilizzatori. Per gli studenti vi è un innovativo riferimento al potenziamento delle competenze nelle discipline Stem nei curriculum scolastici e in quelli universitari, con particolare attenzione per questi ultimi ai sistemi di IA. La vastità del compito si scontra con la limitazione delle risorse finanziarie destinate allo scopo. Il Ddl mette a disposizione fino a 1 miliardo, tratto dal Fondo per il Venture Capital, per l’acquisizione di partecipazioni nel capitale di rischio di imprese, comprese le Pmi, che mostrino un alto potenziale di sviluppo delle tecnologie digitali. Un altro finanziamento di 300 mila euro annui per il prossimo biennio è destinato a progetti sperimentali di impiego dell’IA per i servizi del ministero degli Esteri.

La disparità tra obiettivi e risorse è evidenziata dallo stato delle applicazioni dell’IA nell’economia italiana. Secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano nel 2023 si è assistito ad un’accelerazione delle attività di mercato nell’IA (+52%), ma partendo da importi modesti (760 milioni contro 500 milioni nel 2022) e con una quota minima rappresentata da quella di tipo generativo (5%). Tra le grandi imprese meno del 10% ha iniziato a sperimentarne l’impiego, mentre la quota è molto più ristretta tra le Pmi. Si avverte una certa riluttanza delle imprese, sia grandi che Pmi, a investire in questa tecnologia. Se poco meno dei due terzi delle grandi aziende ha un progetto in questa direzione, le altre ritardano e tra queste il 37% non progetta nemmeno di investirvi nel prossimo biennio. Dall’indagine dell’Osservatorio risulta anche che perfino tra le grandi organizzazioni solo una piccola frazione (11%) è all’avanguardia nell’applicazione di sistemi di IA.

Un complesso di fattori frena l’adozione di questa tecnologia, sia nella forma generica di IA, sia in quella avanzata del tipo generativo. Alcuni sono riconducibili allo scarso livello di conoscenza delle imprese e di disponibilità di competenze per applicarle. Altri all’impegno finanziario e organizzativo che comporta l’adozione. Non basta l’accesso ai sistemi e modelli, in quanto l’impiego efficace di questa tecnologia richiede una ristrutturazione organizzativa all’interno dell’azienda e un nuovo modello di business. Una remora è costituita dall’accesso alla rete a banda larga fuori dalle grandi città: in Italia questa connettività risulta ancora inferiore alla media dell’area Ocse.

Fa da freno anche l’atteggiamento dei piccoli imprenditori e dei manager delle Pmi, che esprimono una certa riluttanza dovuta alla mancanza di visione dei vantaggi che questa tecnologia può apportare al loro business. Da una recente indagine dell’Ocse su un ristretto campione di oltre mille imprese di piccola taglia, campione peraltro non sufficientemente rappresentativo della popolazione d’imprese e con una sotto-rappresentazione dell’Italia, risulta che poco meno del 45% delle imprese non sa come avviare un progetto di digitalizzazione, né ha sufficienti conoscenze degli strumenti digitali. Poco meno di un quarto degli intervistati denuncia gli ostacoli dovuti ai costi della digitalizzazione, la carenza di formazione degli addetti e l’incertezza sui vantaggi. La situazione, nondimeno, è in rapida evoluzione e l’atteggiamento di riluttanza può rovesciarsi in tempi brevi. Lo dimostra la rapidità con cui le Pmi hanno riconosciuto l’importanza della applicazioni di IA Generativa e un numero crescente nello spazio di un anno (il 18%) la utilizza attraverso quella incorporata nelle maggiori piattaforme digitali, oppure la incorpora direttamente nelle sue operazioni.

Il panorama dell’impiego effettivo di questa tecnologia è tuttavia molto variegato, con disparità tra settori, comparti, età delle imprese e capacità del management. Complessivamente si ha l’impressione che non sia sufficiente un approccio di policy del tipo passivo, come la messa a disposizione di incentivi, aspettando che l’iniziativa per il loro utilizzo origini dalle imprese. Occorre integrarlo con misure pro-attive di disseminazione delle conoscenze e di assistenza ravvicinata nella loro adozione e adeguato sfruttamento, quale il mentorship. La strategia dei primi anni del decennio in corso ha dato buoni frutti, benché abbia mancato alcuni obiettivi quantitativi, seppure avvicinandosi. Si è riusciti a sviluppare nuovi talenti, ma non sempre si è riusciti a rendere per loro conveniente lavorare nel Paese, piuttosto che emigrare verso Paesi che offrono condizioni migliori.

Tanto su questo terreno, che su quelli delle misure di intervento attivo tra le imprese in ritardo, specialmente le Pmi, della formazione e dei finanziamenti si dovrà valutare la bontà della nuova Strategia, che il governo dovrebbe definire prossimamente.

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