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La Turchia rompe con Israele anche pensando a Riad

Erdogan cerca di sfruttare le tensioni con Israele anche per rivendicare il ruolo di guida (ideologica, ma anche politica) del mondo musulmano. Mossa anche pensando al futuro post bellico e al mega-deal che coinvolge l’Arabia Saudita

Nell’ultimo sviluppo delle complesse relazioni turco-israeliane, il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha espresso una condanna dal sapore definitivo contro il presidente turco,  Recep Tayyip Erdogan, accusandolo di comportarsi come un “dittatore”. Katz dice che con la decisione di interrompo totalmente gli scambi commerciali con lo stato ebraico — stop alle esportazioni e blocco ai porti dei prodotti importati — Erdogan sta ignorando gli interessi del popolo e degli imprenditori turchi e trascurando gli accordi commerciali internazionali.

In numeri: nel 2022, Ankara ha esportato beni per un valore di 7 miliardi di dollari in Israele, mentre importava 2,3 miliardi di dollari di prodotti, suggerendo che la Turchia ha più da perdere che da guadagnare. Negli ultimi tre decenni, le esportazioni turche verso Israele sono aumentate con un tasso medio annuo del 12,5%. I metalli, utilizzati per massicci progetti di costruzione nelle città israeliane, guidano l’export.

Ankara addossa la situazione al “peggioramento della tragedia umanitaria” nella Striscia di Gaza, dove Israele sta conducendo un tragico conflitto contro Hamas, dopo che questa ha aperto la stagione bellica in corso con il mostruoso attentato del 7 ottobre – dichiarazione di guerra che ha colpito al cuore lo popolo ebraico, colpito come solo il genocidio dell’olocausto aveva fatto nella sua storia, ravvivando posizioni antisemite in giro per il mondo, ma che ha anche esposto Israele alle responsabilità di una reazione violenta, a tratti eccessiva.

La reazione di Katz evidenzia la profondità del disaccordo che segna questa fase dei rapporti tra i due Paesi e segna un altro fattore nella crisi regionale che avvolge Gaza, dossier mai risolto, la cui radicazione è tale negli affari mediorientali da riaprire divisioni e dinamiche che negli ultimi quattro anni erano stati in parte superati per la coincidenza dell’arrivo alla Casa Bianca di un presidente, Joe Biden, che nel continuare una forma di disimpegno americano dalla regione aveva rinvigorito il ruolo di partner e alleati. I quali a loro volta, anche sentendosi responsabilizzati, avevano percepito la necessità di orientarsi verso una distensione tattica degli annosi dissidi.

Tra queste divisioni che caratterizzano il vecchio Medio Oriente non c’è solo quella tra Israele e Turchia, ma anche quella della Turchia con l’Arabia Saudita, e in generale dell’Islam politico — di cui Erdogan è bandiera globale — e quello delle interpretazioni più integrali del wahhbismo che caratterizzano la monarchia saudita. È qui che potrebbe essere ricercata la matrice della situazione: mentre si torna a discutere del “mega-deal” tra Stati Uniti e Arabia Saudita – con la normalizzazione dei rapporti con Israele che è componente determinate di questo accordo – la Turchia si muove in direzione opposta.

Ed è qui che Katz va a colpire quando accusa Erdogan di comportarsi da dittatore, compiendo certe scelte per interesse politico personale e obliterando le volontà del suo popolo. Va anche detto che il presidente turco gode di un medio consenso, in un Paese in cui il peso dell’ideologia sta crescendo, in un momento in cui essa ha ancor più peso per ciò che sta accadendo. E dunque non è vero nemmeno che tutti non siano d’accordo con la linea dura contro Israele.

Ankara da sempre compete con Riad per essere attore di riferimento del mondo musulmano, soffrendo un complesso di inferiorità rispetto al regno, protettore dei luoghi sacri dell’Islam. In questo momento, Erdogan potrebbe provare a sfruttare il contesto per giocare con quell’ideologia tra i suoi concittadini, ma anche per farsi promotore simbolico della difesa dei palestinesi – un ruolo già giocato in passato. Posizione che serve a rivendicare, seppure indirettamente e a spese di Israele, quel ruolo di guida non solo spirituale, ma anche politica del mondo musulmano.

La scelta commerciale contro Israele ricade quindi tra una serie di decisioni prese in questo periodo da Erdogan (per esempio l’apertura al dialogo con la leadership di Hamas, con cui condivide la visione dell’Islam), pensate con fine strategico per proiettarsi già dopo la guerra, quando la Turchia potrebbe aver necessità di rivendicare i propri spazi, perché il mega-deal potrebbe portare a un rimodellamento degli equilibri regionali non troppo favorevole ad Ankara. Che tuttavia si era già portata avanti, avviando negli ultimi due anni un rilancio delle relazioni con l’Arabia Saudita.

Anche per questo, la mossa della Turchia non è esplicita e va analizzata in controluce. Sempre per questo è un’attività rischiosa, complessa e delicata che potrebbe peggiorare le carte in mano a Erdogan. Il blocco delle esportazioni verso i porti israeliani rappresenta una sfida diretta agli accordi di libero scambio in vigore dal 1995, e ciò rischia di rappresentare Ankara come non affidabile – al contrario, Erdogan ha cercato di sfruttare ogni opportunità possibile negli ultimi anni per porsi come honest broker negli affari internazionali.

C’è anche un riflesso securitario: la cooperazione tra Turchia e Israele nell’ultimo periodo ha ruotato molto attorno ad attività di anti-terrorismo, sia quello jihadista sunnita – nemico dell’Islam politico turco tanto quanto dello stato ebraico – sia quello connesso alle attività di intimidazione iraniane (per esempio, le intelligence dei due Paesi avevano scoperchiato una rete per compiere attacchi contro gli ebrei a Istanbul e Ankara). Cosa succede se dopo il commercio gli interessi di Erdogan si allegano ad altre sfere?


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