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Da Matteotti si punti a una “tempesta” corale di coraggio civile. Il commento di Tivelli

Il 10 giugno ricorre il centenario della morte di Giacomo Matteotti, che questo anniversario sia per tutti il momento per riflettere e discutere, rivolgendosi anche e non solo ai giovani, sul valore e il significato del coraggio civile. Per aprire, finalmente, le porte alla speranza, guardando alla vera e dura realtà delle cifre e delle condizioni del Paese, senza farsi attanagliare da forme di più o meno consapevole paura. Il commento di Luigi Tivelli

Tempesta”. Questo era l’epiteto (come ormai sta diventando, per fortuna, noto) con cui veniva appellato Giacomo Matteotti.

E una sorta di “tempesta perfetta” di libri (27 libri fino al momento in cui scrivo) si sta sviluppando, finalmente, nel mondo dell’editoria (con attenzione, finalmente, anche da parte di qualche televisione), in occasione del centesimo anniversario dal vile attentato fascista che ha soppresso questo grande esponente del socialismo riformista italiano proprio agli albori del fascismo.

Per me Matteotti è stato un faro sin dall’età di quattordici anni: io stavo nel cuore di quel Polesine da cui quel grande antifascista proveniva. Sono passati tanti anni in cui – nonostante la meritoria opera della Fondazione Matteotti, che oggi vede come presidente Alberto Aghemo (autore del libro “La scuola di Matteotti. Un’idea di libertà: istruzione, democrazia e riscatto sociale” – Rubbettino), come segretario generale l’instancabile professoressa Rossella Pace, e per non poca parte anche come grande sostenitore l’ottimo presidente onorario professor Emmanuele Emanuele – Matteotti era quasi un’icona solo per una parte del socialismo italiano e per pochi addetti ai lavori.

Oggi, finalmente, grazie anche all’attività del Il Comitato Nazionale per le Celebrazioni della Morte di Giacomo Matteotti (presieduto dal professor Maurizio Degl’Innocenti, con la guida organizzativa della professoressa Rossella Pace) e della Fondazione Giacomo Matteotti, si sta diffondendo la vera immagine e la vera sostanza del grande martire antifascista polesano. Non pochi potevano credere che fosse un deputato socialista cui fosse scappato il freno a mano del coraggio con quel discorso sui brogli elettorali delle elezioni agli albori del fascismo, magistralmente condotto nell’aula di Montecitorio. Non pochi lo potevano scambiare per un socialista massimalista, magari un po’ imprudente.

Giacomo Matteotti era, invece, intriso della miglior cultura del riformismo. Passava ore e ore a studiare problemi, questioni, questioni sociali, economico-sociali, dell’educazione nella biblioteca di Montecitorio.

Conduceva nel Polesine, allora decisamente più arretrato di oggi (una specie di sud del nord) un’azione di pedagogia civile, battendo a tappeto le scuole con un’azione che oggi si definirebbe “top down” e “bottom up”. Come emerge, infatti, da uno degli ultimi libri pubblicati, Matteotti era impegnatissimo rispetto al sistema scolastico, sia come riformatore sia con l’azione di pedagogia civile. Specie tra la provincia di Rovigo (Fratta Polesine) da cui proveniva, fino alla provincia di Ferrara.

Nella sua figura c’è anche una sorta di monito rispetto a tanti politici attuali, che non sono adusi a studiare, a documentarsi e neanche a cercare il consenso dal basso (pur essendo gli attuali parlamentari, per fortuna, migliori di quelli, un po’ dominati dall’uno vale uno, della scorsa legislatura). La sua esistenza politica, vilmente stroncata da una squadraccia fascista evidentemente inviata da qualcuno in alto loco, alla sola età di 39 anni, era stata ricca di studio, disciplina, impegno e lavoro, senza massimalismi, ma col sano coraggio della concretezza.
È per queste ragioni che quella di Matteotti dovrebbe essere una figura unificante, in un Paese afflitto da troppo presentismo (che amo definire “oggicrazia”), che ricorda uno dei passaggi più significativi della nostra vicenda storica.

Non mi pare che abbia poi tutto questo senso ricordare la figura di Giacomo Matteotti rullando i tamburi, facendo alzare le sirene del solito antifascismo urlato in chiave divisiva. Abbiamo passato uno dei 25 aprile più divisivi e pieni di settarismi della storia della Repubblica. E anche un primo maggio, per certi versi, tale.

È da sperare che anche la più importante festa per una democrazia repubblicana, il 2 giugno, festa della Repubblica, non veda il solito gioco di orazi contro curiazi, con troppi tromboni che suonano anche dal lato della sinistra. Riflettere sulla figura di Giacomo Matteotti dovrebbe essere, invece, riflettere sui veri lasciti del fascismo (perché non mi sembra proprio che ci siano pericoli di ritorno del fascismo in questo Paese). Un altro signore, un grande professore, già al vertice della burocrazia della Camera dei Deputati, ed esponente del governo Dini nel 1995, Guglielmo Negri, scomparso nel 2000, individuava come lasciti fondamentali del fascismo il “riformismo immobile” e il “feudalesimo di ritorno” in una serie di articoli dei primi anni 80 sul Corriere della Sera. Era anche lui un signore aduso a passare molto tempo nella biblioteca della Camera e a studiare i problemi e le vere questioni, diversamente da quanto in uso oggi nelle classi politiche e purtroppo anche in non poca parte delle classi dell’alta burocrazia.

Siamo ancora in pieno “riformismo immobile”, perché da troppi anni troppe importanti riforme si rinviano. A quando, ad esempio, una vera riforma della concorrenza? A quando una vera riforma della Pubblica Amministrazione? A quando una riforma del CSM che spezzi le troppe catene del rapporto fra magistratura e correntismo politico?

Il riformismo immobile è concatenato a quello che è forse il più grave lascito del fascismo: appunto, il feudalesimo di ritorno. Dal modello corporativo fascista abbiamo ereditato una società ancora piena di troppe corporazioni, di troppe gilde medievali, di troppi ordini professionali chiusi, di troppi cerchi magici a tutti i livelli territoriali. Una società in cui si dedica più tempo alla difesa dei balneari o dei tassisti che alle questioni cruciali come quelle della concorrenza, del Mezzogiorno, dei giovani, delle donne. È questo il vero lascito del fascismo. Una vera azione di antifascismo operativo oggi dovrebbe mirare proprio a spezzare le catene neo-corporative che bloccano la crescita, che impediscono una sana concorrenza e l’affermazione e il rilancio, finalmente, del valore del merito. Visto che, in qualche modo, merito e concorrenza sono sorelle gemelle. E non ci può essere l’uno senza l’altra.

Il vero antifascismo, declinato in chiave riformatrice, dovrebbe essere teso a superare, appunto, queste gravi eredità ed ipoteche che sono state tramandate dal fascismo alla Repubblica. Credo forse che sia più facile strombazzare da una parte e dall’altra che affrontare con coraggio i veri nodi. Perché, come ha accennato anche recentemente Giuseppe De Rita, abbiamo classi politiche e per certi versi classi dirigenti, un po’ senza coraggio, e soprattutto senza il coraggio dei piccoli rischi (difesa dei balneari e dei tassisti – sia da destra che da sinistra – docet) per liberare le tante risorse che ci sono nella società italiana e finalmente liberare quella crescita che praticamente da quasi trent’anni non c’è.

E qui viene la lezione del e sul coraggio di Giacomo Matteotti. Che il coraggio civile lo manifestava già prima di correre l’estremo rischio. Ebbene, questo centenario sia per tutti il momento per riflettere e discutere in modo rivolto anche, e non solo, ai giovani, sul valore e il significato del coraggio civile. Per aprire, finalmente, le porte alla speranza, guardando alla vera e dura realtà delle cifre e delle condizioni del Paese, senza farsi attanagliare da forme di più o meno consapevole paura, di troppo scarso, se non a volte inesistente, coraggio civile. È quindi da sperare che dalla “tempesta di libri” relativi a un grande come Matteotti, che veniva definito “Tempesta”, si diffonda una risanatrice “tempesta del coraggio civile”, sulla scia del sacrificio quasi consapevole di un grande riformatore e un grande uomo del coraggio.

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