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Il nuovo patto di stabilità? Un freno agli investimenti. La versione di Tinagli

Conversazione con l’europarlamentare del Pd: “Le regole sui conti? Prevale il senso di una mancata opportunità e soprattutto i timori che questo nuovo assetto di fatto non sia sufficiente a far affrontare le sfide dei prossimi anni. Le nuove regole, essendo abbastanza stringenti anche per Paesi a medio debito, di fatto rischiano di frenare gli investimenti anche in quelle parti d’Europa che se li potrebbero permettere e che potrebbero trainare il resto del continente”

Le nuove regole relative al Patto di stabilità, essendo abbastanza stringenti anche per Paesi a medio debito, di fatto rischiano di frenare gli investimenti anche in quelle parti d’Europa che se li potrebbero permettere e che potrebbero trainare il resto d’Europa perché siamo comunque in un’economia interconnessa. Lo dice a Formiche.net l’eurodeputata del Pd Irene Tinagli, candidata nella circoscrizione nord-ovest, che prende spunto dalle scelte della segretaria Elly Schlein per analizzare programmi e obiettivi del Nazareno.

Quale l’obiettivo numerico del Pd alle prossime europee?

La segretaria ha detto che non vuole mettere nessuna asticella, per cui men che meno voglio farlo io. Insomma, io mi auguro che il Partito Democratico confermi comunque il buon risultato che ha avuto in passato e che insomma possa tenere salda la sua rappresentanza a Bruxelles: questo è l’augurio che faccio a tutti noi, senza però indicare numeri.

Ha condiviso la scelta del segretario Schlein di candidarsi?

Io non l’avrei fatto, però rispetto la sua scelta. Ovviamente è una scelta legittima ma io avrei fatto diversamente.

Come fondere civismo e partiti?

La mia visione è che un partito debba avere un progetto politico di base con delle tematiche, delle priorità, dei punti fermi su cui lavorare e attorno a questi temi decidere la squadra: quindi certamente ci devono essere persone che hanno maturato un’esperienza dentro al partito e che hanno lavorato sulle delle tematiche anche perché un minimo di continuità consente di incidere. Inoltre possono esserci degli innesti nuovi che siano coerenti con programmi e obiettivi: mi riferisco a soggetti esterni che ovviamente devono portare competenze ed esperienze specifiche legate appunto ai propri programmi e ai propri valori.

Crede siano conciliabili col Nazareno posizioni differenti, come quelle di Marco Tarquinio e Cecilia Strada?

Il Pd è sempre stato un partito molto ampio, dove si sono confrontate idee diverse su alcune tematiche critiche, mi riferisco soprattutto ad alcuni tipi di valori, dai temi etici ai temi dei diritti civili. Nel partito si sono confrontate posizioni che magari non sempre erano allineate anche se poi l’obiettivo finale è lavorare per una società inclusiva e per la lotta alle diseguaglianze. Ma è chiaro che sugli strumenti e sulle modalità con cui arrivarci a volte ci sono state visioni diverse: riconosco che le posizioni di alcuni candidati che arrivano da fuori possono non essere perfettamente allineate a quella che è la posizione, non solo del Pd, ma di tutto il gruppo dei Socialisti e democratici a Bruxelles. Però se gliela devo dire tutta preferisco l’innesto di un pacifista come Tarquinio piuttosto che uno come Vannacci.

Candidare Ilaria Salis, così come ha fatto AVS, è più un’opportunità o un errore?

Mi auguro che per la Salis sia un’opportunità però questo dovremmo valutarlo dopo, è difficile farlo ex-ante qui. Quanto alle opportunità sul partito politico in questione, non mi esprimo: mi auguro solo che la scelta sia stata fatta per un’opportunità legata alla persona e non alla campagna elettorale.

Sul patto di stabilità invece che idea si è fatta?

Avevo salutato con grande favore la proposta fatta un anno fa dalla Commissione perché mi sembrava una soluzione equilibrata che lasciava i giusti spazi anche per dei percorsi individuali di ciascun Paese, come gli investimenti. Devo dire che, poi, sono rimasta molto delusa dalla piega che ha preso il negoziato dentro al Consiglio, che sostanzialmente ha snaturato la proposta della Commissione. E quando poi siamo andati a negoziare fra Parlamento e Consiglio, lì abbiamo cercato come Parlamento di migliorare il testo: qualcosina abbiamo ottenuto, ma non tanto. Se devo essere sincera, prevale il senso di una mancata opportunità e soprattutto i timori che questo nuovo assetto di regole di fatto non sia sufficiente a far affrontare le sfide dei prossimi anni.

Quanto inciderà sull’Italia?

In Italia la questione ha preso un po’ troppo la piega del deficit, ma ricordo che, patto o non patto, comunque l’Italia dovrà ridurre il debito, a prescindere. Qualsiasi tipo di regole fosse stato approvato, l’Italia avrebbe dovuto fare un piano di rientro abbastanza severo, perché dovendo collocare centinaia di miliardi di debito ogni anno sui mercati, se l’Italia non darà un segnale di serietà sui bilanci poi il debito non lo ricollocherà più. Il problema che io pongo è un problema di crescita di investimenti a livello europeo.

Ovvero?

Le nuove regole, essendo abbastanza stringenti anche per Paesi a medio debito, cioè i Paesi col debito fra il 60 e il 100%, di fatto rischiano di frenare gli investimenti anche in quelle parti d’Europa che se li potrebbero permettere e che potrebbero trainare il resto d’Europa perché siamo comunque in un’economia interconnessa. Per cui il senso di un’Unione europea integrata e di un mercato unico è anche questo. I periodi in cui magari c’è bisogno di fare politiche restrittive sono compensati dal fatto che in altri Paesi si fanno investimenti espansivi: in questo modo, e solo in questo modo, complessivamente l’Europa crescerà fra innovazione e investimenti. Purtroppo questo sistema di regole, avendo reintrodotto vincoli quantitativi uguali per tutti sia sul debito, che sul deficit, che sul percorso di rientro, potrebbero impedire all’area euro di avere la capacità di investire quel tanto che occorre per non perdere terreno con altre aree del mondo.

Si riferisce a Usa e Cina?

Io pongo un problema di confronto e di competizione con le altre giurisdizioni. Stati Uniti e Cina stanno facendo tantissimo per recuperare terreno sugli investimenti nella transizione ecologica e noi faremo tanta fatica perché non avremo né lo spazio dei singoli governi, né gli investimenti finanziati a livello europeo dal momento che il recovery ormai è in chiusura e quindi quello che doveva essere speso è già stato stanziato.

Quale il suo giudizio complessivo sulla Commissione europea uscente?

Penso che sia stata comunque una Commissione capace di dare delle risposte importanti in un periodo di crisi profondissime che si sono succedute una dietro l’altra: pensiamo al tema della pandemia, dei vaccini, della ripresa economica dopo il lockdown, pensiamo alla tutela dell’occupazione che ha cercato di mantenere la linea salda su alcune linee di indirizzo politico di lungo periodo. Mi riferisco soprattutto al tema della decarbonizzazione e della neutralità climatica che sono stati secondo me importantissimi. Certo, è stata una Commissione che ovviamente nel finale si è ritrovata ostaggio di alcuni veti perché, con l’avvicinarsi delle elezioni europee e con l’avvicendarsi di alcuni governi che avevano un minore afflato europeista o con dinamiche interne legate alle debolezze di leadership politica, poi la Commissione ha arrancato. Ci sono state alcune retromarce. L’ideale è venuto un po’ meno e siamo di nuovo ostaggio dei veti. Non è colpa della Commissione questo, piuttosto un problema strutturale della nostra Unione. Per questa ragione mi auguro che nel prossimo quinquennio ci siano le condizioni anche per metter mano a qualche riforma più profonda, ma complessivamente ritengo che la Commissione abbia lavorato molto bene perché ha saputo dare delle risposte a crisi che avrebbero tranquillamente potuto spaccare definitivamente l’Europa.



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