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Gli over 65 del futuro? Senza cultura, una generazione di zombie

Senza over 65 che vanno al cinema, o al teatro, o a concerti o a musei, costruiremo una generazione di dipendenti da smartphone. Abbiamo l’opportunità di anticipare una potenziale minaccia. Sarebbe irresponsabile non porvi rimedio, e quantomeno scellerato non provarci. L’intervento di Stefano Monti

In Italia, la speranza media di vita è di quasi 84 anni, contro gli 81,5 della media europea. Una notizia positiva, che tuttavia deve accompagnarsi a una riflessione sistemica sul nostro Paese, perché le evoluzioni strutturali degli ultimi decenni, dal calo delle nascite ai cambiamenti in ambito contrattuale-occupazionale, non sono compatibili con le condizioni cui siamo abituati a pensare quando si parla di terza età.

Musei, teatri, libri. Gli over 65 sono una categoria importante del settore. E allo stesso tempo il sistema culturale italiano rappresenta, per questa classe di età, un’importante opportunità sociale e culturale. I dati lo affermano con una certa chiarezza: il 16,8% dei turisti over 65 identifica il motivo principale di viaggio nella visita al Patrimonio Culturale, il 10,4% della popolazione over 65 e il 12,8% della popolazione over 74 visitano almeno 7 musei e mostre all’anno, contro, una media (che include anche tali fasce di popolazione), pari a circa la metà (6,8%).

Al di là delle cifre, la consapevolezza che molte persone over 65 dedichino una parte importante del proprio tempo alla cultura è empirica. E questa evidenza si associa anche ai benefici che tale livello di fruizione genera sugli aspetti della socialità delle persone, in un modello sociale in cui gli over65 sono rapidamente passati dall’esser “nonni” all’uscire in comitiva.

Guardando al futuro, e ferme restando le condizioni che oggi caratterizzano la società del nostro Paese, tutti i dati tendenziali portano a supporre che l’età media degli italiani sarà sempre più alta, che la distanza tra le generazioni tenderà ad essere sempre più evidente, con persone che fanno il primo figlio sempre più tardi. In sintesi, l’età in cui un uomo diviene per la prima volta genitore è circa 36 anni, contro i circa 25 di 10 anni fa.

Senza nemmeno immaginare la crescita tendenziale la differenza è evidente: se l’età media del primo figlio è 25 anni, a 50 si è nonni. Se invece il primo figlio lo si fa a 36, si sarà nonni a 72. Nel frattempo, tra i 65 (anno psicologicamente affiancato all’uscita dal mondo del lavoro) e i 72, abbiamo uomini e donne che escono da un nucleo forte di socialità (il posto di lavoro), a cui non è ancora attribuita la funzione sociale di “nonna o nonno” e con sempre più frequentemente i figli lontani per ragioni di lavoro.

In questo scenario, che emerge anche guardando in modo così grossolano il fenomeno, è evidente che la cultura sarà, soprattutto per le persone che oggi hanno fino a 50 anni, una categoria di consumo essenziale. Questo elemento va però incrociato con il crescente valore dei prezzi di musei e spettacoli. Tendenza corretta, che tuttavia potrebbe rischiare di lasciare “fuori” alcune classi di età che, per questioni legate all’impoverimento della base di lavoratori che pagano i contributi, dovranno contare sui risparmi obbligatori e su quelli integrativi.

La struttura dei premi, infatti, è stata costruita tenendo conto di un paniere di necessità che oggi risulta abbondantemente superato, come tra l’altro dimostra il recente approfondimento Ocse che mostra come il salario reale degli italiani sia diminuito dal ’90 ad oggi.

Ciò significa che, a parità di valore nominale della pensione, i consumi che sarà possibile condurre nel 2040, o nel 2050, saranno necessariamente minori. Proiettando questo tema con l’evidenza che già oggi gli importi ricevuti sono spesso incongrui, emerge con chiarezza l’esigenza di immaginare delle soluzioni che permettano ai futuri over 65 di poter fruire di una mostra senza che questo comporti una riduzione di altri beni di prima necessità.

La strada della gratuità dei musei per gli over 65 potrebbe essere efficace, ma sarebbe al tempo stesso una misura che premia in modo iniquo anche coloro che, invece, possono permettersi di pagare il biglietto a prezzo pieno senza inficiare la loro qualità della vita.

Un’altra strada può essere quella di prevedere la creazione di categorie di biglietti (per spettacoli, musei, e altre attività istituzionali) il cui prezzo è comparato all’Isee. Una strada senza dubbio efficace, ma che presuppone una serie di cambiamenti sia gestionali, sia informatico-legislativi (la privacy), sia culturali (i furbetti), che politici (una forte attenzione al tema), che rende questa modalità di intervento probabilmente la più corretta, ma la meno perseguibile.

Un altro livello di intervento è la creazione di uno strumento assicurativo di natura privata e con fondi pubblici e privati, che ponendo insieme risorse pubbliche, risorse private generate da parte di tutto il comparto delle assicurazioni complementari, e da parte di donazioni residuali sugli acquisti, possa fornire, nel tempo, “biglietti omaggio” e “riduzioni” aggiuntive rispetto a quelle che sicuramente saranno in ogni caso previste.

Riduzioni che potranno riguardare non solo il mondo delle istituzioni culturali pubbliche, che tra tutte è quello che presenta maggiori tutele, ma anche e soprattutto il mondo delle istituzioni culturali private, come teatri, spettacoli da concerto, musei privati, ed altre attività affini. Un modo per anticipare un problema, piuttosto che cercare di porvi in malo modo rimedio quando si presenterà. Perché se nulla cambia, questo scenario è inevitabile.

E senza over 65 che vanno al cinema, o al teatro, o a concerti o a musei, costruiremo una generazione over di dipendenti da smartphone, con l’unica variabile della lettura che tuttavia è una pratica che si acquisisce nel tempo, e i dati sui lettori tra le nuove generazioni non sono confortanti.

Abbiamo l’opportunità di anticipare una potenziale minaccia. Sarebbe irresponsabile non porvi rimedio, e quantomeno scellerato non provarci.

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