La riforma del premierato come antidoto al trasformismo, come ricetta per far durare i governi e soprattutto come garanzia per il Parlamento. La premier Giorgia Meloni difende la “riforma delle riforme” dal palco dell’evento realizzato da fondazione De Gasperi e Craxi. Tra gli esperti, critici Clementi e Violante
Non getta la spugna. Perché non vuole essere “come tutti gli altri”. La premier Giorgia Meloni sulla “madre di tutte le riforme”, è intenzionata ad andare avanti sulla strada intrapresa: “Questa riforma non riguarda la sottoscritta o il presidente Sergio Mattarella. Riguarda un altro mondo, un futuro ipotetico. Per questo vale la pena discutere invece di personalizzare sempre tutto”.
La premier, intervenendo all’incontro organizzato dalle fondazioni Craxi e De Gasperi ieri pomeriggio a Montecitorio, non risparmia qualche stoccata alle opposizioni benché si dica a più riprese “aperta al dialogo e al confronto nel merito”. “Ci sono questioni sulle quali l’opposizione fine a se stessa non serve a niente – dice Meloni -. Questo gioco tattico lo pagano i cittadini e la credibilità delle istituzioni. Noi abbiamo proposto una riforma che risolve alcuni dei grandi problemi strutturali di questa nazione, per questo la definisco la madre di tutte le riforme. E lo abbiamo fatto toccando 7 articoli. Lo abbiamo fatto in punta di piedi”.
Sollecitata dagli interventi, Meloni non si sottrae ai rilevi. “Credo di essere stata la presidente dell’unico partito che ha avuto il coraggio di presentare emendamenti che reintroducevano le preferenze per l’elezione dei parlamentari, non sono mai stata contraria e anche su questo sono aperta”, scandisce rispondendo all’intervento del presidente onorario della fondazione Italia Decide, Luciano Violante.
Sono due, poi, i temi più ricorrenti anche nei contributi della ministra per le Riforme, Maria Elisabetta Alberti Casellati, e del presidente della fondazione De Gasperi, Angelino Alfano: la stabilità e il contrasto al trasformismo.
La premier sui due punti è netta e allarga la linea dell’orizzonte anche al tema della credibilità internazionale. “La riforma del premierato rispetta la salvaguardia del ruolo del Parlamento. C’è chi sostiene che indebolisca le Camere, ma io penso che indebolisca il trasformismo, e che sia il trasformismo ad avere spesso indebolito le Camere. Il premierato stabilisce che chi viene scelto dal popolo per governare possa farlo con un orizzonte di legislatura, possa avere il tempo per portare avanti il programma con cui si e’ presentato ai cittadini: tempo e stabilita’ sono condizione determinante per costruire qualsiasi strategia e quindi per restituire credibilità alle nostre istituzioni di fronte ai cittadini e a questa nazione con i nostri interlocutori internazionali”.
Il valore del convegno di ieri è stato, più di altri, il pluralismo e il confronto sui temi cardine che caratterizzano il disegno di legge sul premierato e che costituiranno i capisaldi dello schema referendario.
Un exursus anche di carattere storico. Una collezione di fallimenti – i tentativi di riforma abortiti – che Alfano mette in fila, uno dopo l’altro, ricordando “l’impegno del presidente De Gasperi sul riconoscimento del premio di maggioranza già nel 1953”. A cambiare la Costituzione “ci hanno provato in tanti: da De Mita a Craxi, finendo con Renzi. E questo significa che il problema c’è”. Di qui, Alfano fissa un punto irrinunciabile dalla sua prospettiva: “È indispensabile restituire la scelta di chi lo deve governare al vero sovrano. Il popolo”.
La presidente della fondazione Caraxi, Margherita Boniver – dopo i saluti istituzionali del presidente della Camera, Lorenzo Fontana – non poteva che richiamare lo sforzo del leader socialista nel “tentativo di riformare la Costituzione”. Ravvedendo, già all’epoca, la necessità “di avere un esecutivo forte, nel nome di una chiara indicazione dei cittadini”. Anche da lì passava il “governo del cambiamento”. Quel cambiamento che Orsina delinea in sintesi ma efficacemente e che intreccia i passaggi della grande Storia. Tra tutti: la caduta del muro di Berlino del 1989.
La palingenesi dei comunisti, il cambio nei riferimenti culturali e politici. Il nodo centrale, ancora una volta, resta l’esigenza di “garantire al Paese un esecutivo stabile”. Non una riforma “purché sia”, ma una riforma che “sciolga l’ancoraggio a una lettura della Costituzione che appartiene al passato”.
Tra le voci critiche, c’è quella del docente di diritto pubblico comparato a La Sapienza, Francesco Clementi. Pur condividendo la necessità di “rispondere ai problemi dell’oggi”, il docente mette in file due problemi: “Il rischio che questa riforma sia assolutamente polarizzante e che spacchi il Paese a metà”. L’altro è legato al premio di maggioranza “troppo alto”.
Anna Maria Poggi, docente di Diritto pubblico comparato all’università di Torino, è dell’avviso opposto e nel merito del progetto di riforma, citando il celebre giurista Costantino Mortati, pur premettendo che il tema delle garanzie sia prioritario aggiunge che “l’elezione diretta del presidente del Consiglio rientra a pieno titolo nell’alveo del costituzionalismo”. E soprattutto non rappresenta “un rischio di accentramento del potere, dal momento che il premier può essere sfiduciato dal Parlamento”.
La chiosa critica è di Violante, secondo cui questa riforma “promette più di ciò che può realmente mantenere”, ma soprattutto corre il rischio di “equiparare il Parlamento al Consiglio Comunale o a quello regionale. Sono cose, invece, molto diverse”. Sull’elezione del Presidente della Repubblica, Violante sostiene che “si debba allargare il collegio elettorale”. Insomma, quando si maneggia la Costituzione e tutto ciò che ne consegue – a partire dalle prerogative del Capo dello Stato – ci vuole “un po’ di prudenza”.