Skip to main content

Riad e Washington sempre più vicine a un accordo (senza Israele?)

Il mega-deal tra Usa e Arabia Saudita è pronto. La visita di Sullivana da bin Salman segna un momento importante per le trattative, nonostante rallentamenti tattici. Da Washington arriva anche il placet repubblicano del senatore Graham a suggellare il valore dell’intesa con Riad

Non ci sono molte informazioni sui contenuti, ma riguardo alle evoluzioni di un accordo di difesa tra Washington e Riad si è tornato a spingere con notevole insistenza da qualche settimana. In questi giorni, il viaggio in Arabia Saudita di Jake Sullivan, capo del Consiglio di Sicurezza nazionale, e il suo incontro con l’erede al trono Mohammed bin Salman, è stata la nuova occasione per far circolare altre indiscrezioni: “Manca poco davvero, questione di giorni”. D’altronde, la visita stessa di Sullivan racconta che le evoluzioni ci sono e sono positive.

L’amministrazione Biden, dopo un avvio freddo nelle relazioni con il regno, vuole chiudere velocemente il deal anche per segnare un altro punto in campagna elettorale. Punto dal valore doppio, perché gli americani si augurano che un loro accordo con l’Arabia Saudita posa anche dare una scossa al dossier israeliano-palestinese. E non è escluso che vada così, innescando un processo consequenziale, anche se a quanto pare si stanno preparando i punti dell’intesa senza clausole di normalizzazione saudi-israeliana, che sarebbe una richiesta troppo vincolante — un peso per Riad in questo momento, sebbene una volontà strategica, anche perché legata necessariamente al percorso per la soluzione a Due Stati.

Ufficialmente, gli Stati Uniti non vorrebbero procedere senza integrare la questione israeliana, mentre i sauditi lo preferirebbero (almeno per ora). Anche l’influente ed espertissimo senatore repubblicano Lindsey Graham, durante un’intervista con al Arabiya, aveva suggerito la strada stretta bilaterale, per procedere prima della normalizzazione con Riad-Gerusalemme. Le posizioni del Senato sono fondamentali, perché a quanto pare il “mega-deal” — così viene chiamato l’accordo tra Usa e Arabia Saudita, composto da una serie di vari documenti specifici — dovrà passare per la camera alta. L’ultima volta che un accordo del genere è passato per la ratifica dei senatori era il 1960, quando fu siglato il trattato con il Giappone. Per dare il senso del valore, quello con Tokyo è il principale accordo internazionale statunitense.

Per casualità, Tokyo ha un valore anche negli sviluppo dell’intesa con i sauditi. L’erede al trono ha infatti rinviato una visita nella capitale nipponica (dove il principe saudita sarebbe andato anche a parlare di Gcap) a causa dell’aggravamento delle condizioni di salute del padre, il sovrano. Re Salman è molto malato da anni, e non è la prima volta che — come accaduto ieri — si specula sulla sua possibile morte. La successione è un percorso protocollare, già indirizzato forzatamente da bin Salman negli anni scorsi (ai danni del cugino, precedente erede designato), ma distoglie attenzioni e concentrazioni.

Potrebbe infatti essere un rallentamento tecnico all’accordo con gli Usa, ma allo stesso tempo potrebbe anche diventare un fattore di slancio. L’erede potrebbe essere infatti desideroso di inaugurare il suo nuovo corso del potere con decisioni importanti (come l’accordo con l’America) e anti-conservative (come la normalizzazione con Israele). Mosse con cui mandare subito un messaggio deciso ai fruitori del patto sociale di cui si fa portatore, ossia quelle nuove generazioni (che nel Paese sono maggioranza democratica), che in bin Salman vedono in innovatore illuminato a cui affidarsi.

È un messaggio potente il suo, che parla ai giovani sauditi ma che estende la sua portata all’intero mondo arabo e musulmano. Proposta che si trovano davanti anche i giovani iraniani per esempio, che dopo la morte inaspettata e accidentale di Ebrahim Raisi difficilmente otterranno qualcosa di più del rinnovo di una vecchia linea dura, ultra conservatrice teocratica. E invece bin Salman sa che dalle sue prossime decisioni dipenderà anche la capacità di far percepire il regno come un gigante geopolitico globale — ora che ha abbandonato le visioni guerresche con cui nei primissimi anni di ascesa ha voluto in parte rassicurare l’élite reazionaria interna.

Saranno diversi gli accordi bilaterali che verranno siglati tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita nell’ambito del mega deal, e tra questi ci saranno quelli che si concentrano sul rafforzamento delle relazioni economiche e sul rendere l’Arabia Saudita un centro globale per l’intelligenza artificiale, e magari la condivisione di un percorso comune per lo sviluppo del nucleare civile. Sono tutti elementi che rientrano nella cosiddetta Vision 2030, l’iniziativa ombrello che fa da vessillo al regno (per ora de facto) di Mohammed bin Salman.

Su tutti, però c’è il tema difensivo. E qui torna utile citare Graham: secondo il senatore repubblicano, un accordo di difesa con gli Stati Uniti è il “miglior sigillo di approvazione al mondo” (chiaro che non sbaglia). “Ci sono solo una manciata di Paesi per cui andremo in guerra”, Graham ha continuato, dicendo che un tale patto renderebbe l’Arabia Saudita un luogo molto attraente per fare affari perché “avresti il popolo americano e il Regno dell’Arabia Saudita che lavorano insieme per difendere il territorio”.

Ed è questo ciò che manca a bin Salman per rendere i suoi piani perfetti: la sicurezza. L’immagine di un Paese che può rischiare di essere colpito dai miliziani Houthi con cui è (o meglio era?) in guerra in Yemen, dai terroristi jihadisti che detestano il regno (perché troppo amico dell’Occidente, della Cina e della Russia), o dall’Iran (che mantiene al proprio interno una componente reazionaria che contesta la riapertura dei rapporti siglata lo scorso anno a Pechino), indebolisce le capacità di auto-rappresentazione di Riad.

Per gli Stati Uniti, avere una formalizzazione delle relazioni con l’Arabia Saudita è inoltre impronte, viste le capacità di diplomazia economica del regno e il suo attuale ruolo geoeconomico (Imec un importante paradigma), nonché la competizione geopolitica con la Cina e infine la necessità di disimpegno dalla regione Attenzione un altro elemento: per Graham, il momento migliore per raggiungere questo accordo sarebbe sotto un’amministrazione democratica, la quale garantirebbe che le richieste dell’Arabia Saudita siano soddisfatte, ma inserendole all’interno del proprio perimetro politico-ideologico. Per questo ha detto di essere pronto a lavorare con i senatori democratici e il presidente Joe Biden per votare l’accordo. E non è cosa di poco conto nell’iper polarizzato mondo di Capitol Hill.

×

Iscriviti alla newsletter