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Così la Russia imprigiona le aziende che vogliono andarsene

Non solo il congelamento forzoso dei conti correnti. Per impedire fughe di massa, il Cremlino chiede soldi a chi vuole cambiare aria oppure impone la vendita degli asset a prezzi scontati. E oggi sono ancora oltre 500 le imprese nella ragnatela russa

Si fa presto a minacciare di fare i bagagli e andarsene. Ma non funziona sempre così, non quando c’è di mezzo Vladimir Putin, almeno. Ne sanno qualcosa le grandi imprese occidentali, rimaste in Russia anche all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, azzannate dal Cremlino solo poche settimane fa. La trappola, sotto forma di conti sequestrati e asset congelati, è scattata non appena a Mosca hanno avuto la sensazione, poi rivelatasi fondata, che l’Europa trovasse l’accordo sull’utilizzo dei profitti generati dai beni russi. Eppure, nonostante le rappresaglie russe, sono ancora molte le imprese rimaste invischiate, secondo un rapporto della Kyiv business school, nella rete di Putin. Perché? Semplice, andarsene costa troppo.

Molte aziende europee “si trovano davvero tra l’incudine e il martello”, si legge nel documento. Ad oggi quasi 1.600 aziende internazionali continuano ad operare in Russia, più di 540 sono in attesa di poter andare via e solo 356 hanno lasciato per davvero il mercato russo. Solo a gennaio di quest’anno sono otto le società internazionali che hanno finalmente lasciato il mercato russo, quattro delle quali attraverso la liquidazione. Si tratta di Axis Communications, azienda svedese che produce e vende telecamere di rete e sistemi di sorveglianza, Bank of Cyprus , il più grande gruppo bancario e finanziario di Cipro e Banque Cramer , società svizzera che fornisce servizi di intermediazione istituzionale ed ExxonMobil, multinazionale americana del petrolio e del gas.

“Molto probabilmente”, spiegano gli esperti, “dopo quasi due anni di invasione su vasta scala, i proprietari di aziende internazionali che operavano in Russia hanno rinunciato a inutili tentativi di vendere le loro attività e hanno deciso di uscire radicalmente, attraverso la completa liquidazione”, afferma Andrii Onopriienko, vicedirettore dello sviluppo presso la Kbs. Al 4 febbraio 2024, 356 società internazionali hanno cessato completamente le operazioni in Russia. Nel 2021, avevano oltre mezzo milione di dipendenti, 93,1 miliardi di dollari di entrate annuali, 46,1 miliardi di dollari di capitale e 71,9 miliardi di dollari di asset.

Ma chi rimane, perché lo fa? Il fatto è che Mosca ha gradualmente aumentato i costi di uscita delle imprese, imponendo uno sconto obbligatorio del 50% sui beni provenienti da Paesi ostili venduti ad acquirenti russi e una tassa di uscita minima del 15%. Ma c’è anche un altro ostacolo: quando un’azienda straniera decide di lasciare la Russia, il Cremlino interviene facendo crollare il prezzo degli asset. Morale, alcune di queste aziende hanno costruito quattro, cinque stabilimenti in 30 anni. Non lo venderanno di certo con uno sconto del 90%.

Vale su tutti il parere del membro del board di Unilever, Nelson Peltz, che ha dichiarato al FT quest’anno di essere arrivato a sconsigliare a Unilever, colosso dell’alimentare e dei beni di consumo, di delocalizzare. “Se lasciamo la Russia, loro (i russi, ndr) prenderanno per sé i nostri marchi e a prezzo di saldo. Non penso che sia un buon affare”.

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