La segretaria nazionale del partito aderendo al referendum della Cgil per abolire il Jobs Act ha scatenato un polverone. Una parte importante del sindacato, ma anche i due principali partiti di opposizione, guardano al lavoro con la testa rivolta al passato. Cambia il mondo e al governo del cambiamento si preferisce l’arrocco, negando la tradizione riformista. Conversazione con l’ex ministro Maurizio Sacconi
È una parte di quel retaggio di renzismo che in qualche modo ossessiona – ancora oggi – il Pd. Ovviamente, l’adesione della segretaria nazionale dem al referendum promosso dalla Cgil per abrogarlo ha scatenato un polverone. Tanto interno quanto esterno. La corrente più riformista del partito reputa per lo meno avventata questa scelta ma soprattutto intempestiva l’uscita. Il leader di Azione, Carlo Calenda, ha addirittura parlato di “appiattimento del partito sulle posizioni di Landini”. La prospettiva consegnata a Formiche.net dall’ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, è forse ancora più drastica. “Non solo una parte importante del sindacato ma anche i due principali partiti di opposizione guardano al lavoro con la testa rivolta al passato”, dice.
Elly Schlein firma il referendum contro il Jobs Act. Dunque il Pd si divide anche sul lavoro, che era stato l’unico tema sul quale era riuscito a trovare – sul salario minimo – una convergenza anche con altri partiti. Che segnale è?
Un brutto segnale. Non solo una parte importante del sindacato ma anche i due principali partiti di opposizione guardano al lavoro con la testa rivolta al passato. È in corso una grande trasformazione del lavoro e si privilegiano le vecchie regole del lavoro in serie. Emergono nuovi bisogni, dal giusto salario al welfare integrativo all’apprendimento permanente. Ma le risposte delle parti sociali sono insufficienti o assenti. Siamo per lo più fermi agli anni ‘70.
Dalla prospettiva della sinistra, quale è il senso di abolire una misura da loro stessi in qualche modo promossa?
Mi sembra la negazione della tradizione riformista, già carsica nella storia di questa sinistra, per privilegiare ancora una volta la rincorsa del radicalismo difensivo. Cambia il mondo e al governo del cambiamento si preferisce l’arrocco.
Non c’è il rischio, con questa scelta, che Schlein divida ancora di più il partito in una fase delicata come la campagna elettorale per le Europee?
Penso di sì ma i loro problemi interni non li saprei giudicare e non mi interessano.
Secondo le stime di Istat pubblicate un paio di giorni fa, l’Italia ha raggiunto un altro picco in termini occupazionali. È un fuoco di paglia come denunciano le opposizioni o si tratta di una crescita che ha margini di consolidamento?
La tendenza positiva è in atto dal dopo Covid e si sta consolidando. Permangono tuttavia la crisi della offerta e una forte presenza di inattivi, stabili al 33%. Per questa ragione più che incentivi alla domanda servono “doti” ai disoccupati così da incoraggiarli ad offrirsi e da premiare gli intermediari che, riqualificandoli, li occupano.
La segretaria del Pd aderisce all’iniziativa di una sigla sindacale. Ma, in questo modo, non si rischia di compromettere il legame con gli altri confederali e, ancor di più, per il sindacato non è un azzardo che potenzialmente lo espone a un’eccessiva politicizzazione?
L’Italia ha sempre avuto un robusto pluralismo sindacale, fondato su diverse basi culturali e non solo sui rapporti con la politica. Nei momenti più significativi della evoluzione delle politiche del lavoro, i sindacati si sono divisi. Basti pensare all’avvio della contrattazione articolata, allo stesso Statuto dei lavoratori, alla fine della scala mobile, alla legge Biagi. In particolare i referendum non sono mai stati unitari.