Lo scontro tra l’attuale presidente americano e il candidato Repubblicano su Gaza ha due ragioni, una interna e una esterna. Ad accendere la miccia la scelta di Biden di non fornire armi a Israele se dovesse procedere con l’invasione di Rafah. E all’orizzonte le elezioni di novembre
La crisi di Gaza continua ad aleggiare sulla campagna elettorale per le presidenziali americane di novembre. A destare clamore è stato soprattutto Joe Biden, quando, mercoledì, ha detto alla Cnn di voler bloccare gli aiuti militari offensivi a Israele in caso di un’invasione su vasta scala di Rafah. Una presa di posizione, quella del presidente americano, che ha innescato la dura replica di Donald Trump.
“Biden è debole, corrotto e sta guidando il mondo direttamente verso la terza guerra mondiale”, ha tuonato il candidato Repubblicano. “Il disonesto Joe Biden, che lo sappia o meno, ha appena dichiarato che non fornirà armi a Israele mentre combatte per sradicare i terroristi di Hamas a Gaza. Hamas ha ucciso migliaia di civili innocenti, compresi i bambini, e tiene ancora in ostaggio gli americani, se gli ostaggi sono ancora vivi”, ha proseguito. “Il disonesto Joe si schiera dalla parte di questi terroristi, così come si è schierato dalla parte delle folle radicali che si stanno impadronendo dei nostri campus universitari, perché i suoi finanziatori li finanziano”, ha aggiunto, per poi concludere, citando Ronald Reagan: “Molto presto torneremo a chiedere la pace attraverso la forza”. L’ex presidente ha poco dopo rincarato la dose. “Ciò che Biden sta facendo nei confronti di Israele è vergognoso. Se qualche ebreo votasse per Joe Biden, dovrebbe vergognarsi di sé stesso”.
Parole durissime, che hanno portato la Casa Bianca a replicare. Il portavoce del consiglio per la sicurezza nazionale americano, John Kirby, ha infatti cercato di respingere l’accusa secondo cui Biden starebbe abbandonando lo Stato ebraico. “Questo è un presidente che ha visitato Israele pochi giorni dopo gli attacchi del 7 ottobre. Questo è un presidente che ha inviato altri aerei militari in Israele e ha fornito l’esperienza dei nostri stessi militari per andare lì per aiutarli mentre pensavano alla loro pianificazione e alle loro operazioni”, ha detto Kirby. “Le spedizioni di armi continuano a essere effettuate in Israele. Stanno ancora ricevendo la stragrande maggioranza di tutto ciò di cui hanno bisogno per difendersi”, ha aggiunto.
Insomma, lo scontro su Gaza si sta facendo sempre più acceso nella campagna elettorale americana. Cerchiamo quindi di entrare maggiormente nel dettaglio. Un punto decisivo del duello tra Biden e Trump riguarda il ruolo dell’Iran, che è notoriamente uno dei principali finanziatori di Hamas. Qualora tornasse alla Casa Bianca, il candidato repubblicano è intenzionato a ripristinare la politica della “massima pressione” sul regime degli ayatollah: una linea, questa, con cui punta a promuovere il riavvicinamento tra Israele e l’Arabia Saudita, seguendo la logica degli Accordi di Abramo. Una logica che, ricordiamolo, aveva come presupposto il comune timore di sauditi e israeliani nei confronti delle ambizioni nucleari iraniane.
Biden, sebbene stia da tempo cercando di negoziare una normalizzazione dei rapporti tra Gerusalemme e Riad, continua a tenere un approccio relativamente soft nei confronti di Teheran: al netto di qualche recente sanzione, due settimane fa il Dipartimento di Stato americano non ha smentito che la Casa Bianca stia ancora conducendo dei colloqui indiretti con Teheran per tentare di ripristinare il controverso accordo sul nucleare iraniano. È questa morbidezza che spaventa i sauditi e gli israeliani. Ed è sempre questa morbidezza che impedisce a Biden di avere una leva negoziale più incisiva con Benjamin Netanyahu, per convincerlo a ridurre la pressione militare sulla Striscia di Gaza. Un ripristino della “massima pressione” sugli ayatollah indebolirebbe difatti indirettamente Hamas, offrendo maggiori garanzie a Gerusalemme.
In secondo luogo, il duello tra Biden e Trump su Gaza ha delle connotazioni legate anche alla politica interna americana. Se i repubblicani si sono mostrati abbastanza compatti nel criticare Biden quando ha minacciato di bloccare l’invio di armi offensive a Israele, qualche crepa si è invece registrata nel Partito Democratico, al cui interno le parole del presidente sono state ben accolte dall’ala filopalestinese e criticate da quella filo-israeliana. D’altronde, non è un mistero che la crisi di Gaza abbia spaccato lo stesso elettorato dem. Le correnti più a sinistra dell’Asinello hanno attaccato Biden in questi mesi, accusandolo di essere troppo vicino alle posizioni dello Stato ebraico. In tal senso, queste stesse correnti hanno minacciato di boicottare la ricandidatura dell’attuale presidente in alcuni Stati chiave in vista delle elezioni di novembre (soprattutto Michigan e Wisconsin). Da qui, l’approccio ambivalente dell’inquilino della Casa Bianca che, pur firmando recentemente un nuovo pacchetto di aiuti militari a Israele, mercoledì ha ventilato lo stop all’invio di armamenti offensivi. Il punto è che questa linea altalenante comporta due rischi. Primo: a livello internazionale, trasmette un senso di irresolutezza, che potrebbe avere impatti negativi sulla capacità di deterrenza di Washington verso Teheran. Secondo: a livello interno, tale approccio non sembra stia realmente riuscendo a federare le varie anime dell’universo dem e, più in generale, dell’intero elettorato d’Oltreatlantico.
Non a caso, Trump, come abbiamo visto, ha attaccato Biden anche sulle proteste studentesche filopalestinesi. Secondo un recente sondaggio della Suffolk University, il 67% degli americani si dice in qualche misura preoccupato per le manifestazioni aggressive verificatesi nei campus universitari. Il candidato repubblicano sta quindi cercando di dipingere, a torto o a ragione, il presidente come troppo debole e incapace di fronteggiare questioni di ordine pubblico. Biden, dal canto suo, spera che, con le sue parole di mercoledì alla Cnn, la protesta negli atenei possa in qualche modo essere disinnescata. Vedremo se avrà ragione, anche se – almeno per il momento – c’è da dubitarne.