In un contesto globale sempre più insicuro, si conferma la validità del detto romano “si vis pacem, para bellum”. In questo contesto, l’Ue ha bisogno di una “rivoluzione culturale” che ponga l’attenzione sulla necessità di lavorare sul serio per migliorare le capacità europee di difesa e sicurezza. L’analisi di Michele Nones, vice presidente dell’Istituto affari internazionali
La comunicazione della Commissione europea sulla strategia per l’industria europea della difesa, presentata il 5 marzo e condivisa dal Consiglio europeo del 21-22 marzo, prevede numerose misure per “supportare gli sforzi degli Stati membri per investire meglio, insieme, ed europeo così come per incrementare la disponibilità di prodotti e sistemi per la difesa grazie ad una più efficiente e reattiva base tecnologica e industriale della difesa europea”.
Viene, quindi, posta all’ordine del giorno dell’Unione europea la necessità di disporre di una maggiore capacità di difesa in funzione di deterrenza contro le aumentate minacce alla sua sicurezza. Più di settant’anni di crescente prosperità e progressiva integrazione europea rischiano, infatti, di essere compromesse da uno scenario internazionale che sembra premiare il mancato rispetto delle regole di una pacifica convivenza, anziché il contrario.
Si torna lentamente a riconoscere la validità del mai dimenticato motto romano “si vis pacem, para bellum”: la forza militare continua ad essere uno dei principali strumenti per frenare le cattive tentazioni di nemici vecchi e nuovi, ancora prima che per contrastarli sul campo.
A questo fine l’Unione europea deve maturare prima di tutto una “rivoluzione culturale” che permetta un salto politico e, poi conseguentemente, si rifletta sul piano operativo, finanziario, istituzionale e normativo. Per farlo bisogna diffondere la consapevolezza che la ricreazione è finita e che adesso bisogna lavorare sul serio per migliorare le capacità europee di difesa e sicurezza. I sacrifici e i radicali cambiamenti si possono accettare solo se si è convinti di essere entrati in una fase di grave emergenza che rischia di compromettere irrimediabilmente tutto quello che insieme abbiamo costruito. Questo è il risultato di non aver voluto investire fino ad ora abbastanza energie, risorse finanziarie, uomini e nemmeno attenzione sulla nostra sicurezza.
Uno dei maggiori problemi con cui ora ci dobbiamo misurare è quello di avere disponibili quantità adeguate di equipaggiamenti militari. Per farlo servono più finanziamenti, ma non basta.
La complessità tecnologica e industriale dei moderni equipaggiamenti fa sì che serva molto tempo alle imprese per aumentare le loro capacità produttive. Basti pensare alla laboriosità dei programmi di cooperazione intergovernativa, alla lunghezza delle catene di subfornitura e spesso alla loro internazionalizzazione, alla difficoltà di trovare sufficiente manodopera specializzata a livello nazionale, alla lunghezza degli iter per l’assegnazione dei contratti e per la certificazione dei mezzi prodotti (nonché per ogni variazione dei componenti e/o dei fornitori, ecc.).
I governi e le Forze Armate, da soli e tutti insieme con le Istituzioni europee, stanno strigliando l’industria chiedendo di accelerare e aumentare le produzioni militari, ma, a parte il munizionamento e i mezzi più semplici nel campo dei mezzi e degli armamenti terrestri e dei droni, per ora sono destinati a raggiungere limitati risultati. Ne discutono con grandi e medio-grandi imprese, ma queste rappresentano solo la parte emersa dell’iceberg: sotto il livello dell’acqua vi sono a cascata centinaia, a volte migliaia, di sub-fornitori. Fra questi, moltissimi operano fuori dai confini nazionali e spesso anche dai confini europei e, quindi, fuori da ogni controllo degli Stati membri e delle Istituzioni europee.
Fra le possibili parziali soluzioni, sicuramente una più stretta collaborazione e condivisione delle informazioni fra Forze Armate e industria può favorire la ricerca delle migliori soluzioni. Ogni cambiamento legato ai tempi di consegna o alle priorità (soprattutto quando vi sono più versioni in programma) o a possibili modifiche minori all’interno dell’equipaggiamento, sono ipotizzabili solo nel quadro di uno stretto confronto fra i due partner, l’utilizzatore e il costruttore.
Se e quando apportare piccole modifiche risultasse vantaggioso, si pone immediatamente la necessità di poter agire anche giuridicamente in deroga alla normativa ordinaria, soprattutto nel nostro Paese. Basti pensare alla messa a terra o al blocco dell’uso di mezzi coinvolti in incidenti sul territorio nazionale o, molto peggio, avvenuti durante le missioni internazionali “di pace”: la mancata applicazione del codice militare di guerra per non “spaventare” l’opinione pubblica, ha fatto si che venissero applicate le procedure giudiziarie ordinarie con i relativi lunghissimi tempi. Cosa succerebbe ora se, dopo aver “forzato” i tempi di consegna o introdotto “modifiche” anche piccole, si verificasse un incidente? Quanti militari e civili (compresi generali e manager) potrebbero rischiare di veder compromessa carriera e vita famigliare, tenendo conto che dopo anni di indagini nessuna assoluzione potrebbe restituirgli quanto perso? Di qui la necessità di adeguare tutto l’impianto normativo delle attività di acquisizione, adeguamento e manutenzione alle esigenze dell’economia di emergenza in cui stiamo vivendo, esattamente come avviene in caso di disastri.
Un altro aspetto che si potrebbe affrontare in casa nostra, pur nella consapevolezza che solo una soluzione complessiva “europea” risulterebbe efficace, è l’attribuzione al Ministero della Difesa della possibilità di dare priorità alle forniture a favore di altri Stati membri (oltre che ovviamente alle nostre), a discapito di esportazioni a Paesi extra-europei, potendo celermente pagare tutti gli inevitabili indennizzi per i danni diretti e indiretti, senza correre il rischio che sia considerato “danno erariale” o, comunque, non coperto da alcuna “norma”.
Per noi e per altri Stati membri un altro terreno di possibile intervento è quello della stipula di contratti pluriennali anche nei confronti di sub-fornitori. Soprattutto quelli partecipati da Fondi di investimento difficilmente possono avviare piani di investimento significativi, volti ad aumentare le loro capacità produttive, se non lo possono giustificare con entrate certe su periodi di tempo adeguati. Una possibile integrazione o alternativa potrebbe essere rappresentata dal finanziamento dell’investimento a carico dello Stato e dalla sola cessione in comodato d’uso dei macchinari, sotto precisi controlli, all’impresa interessata, grande, media e piccola. In alternativa, anche una garanzia e copertura degli interessi sui prestiti bancari potrebbe essere utile.
Dobbiamo essere tutti consapevoli che l’economia di emergenza nel settore della difesa non può essere gestita con le stesse regole dell’economia di guerra. Ma prima di tutto bisogna capire che, consapevoli o inconsapevoli, la stiamo già vivendo.