L’ultima volta che Macron incontrò Xi fece dichiarazioni rumorose su Taiwan: ma a che punto è la questione Taipei a Bruxelles? Cosa potrebbe modificare lo status quo e delineare scenari di crescita della tensione? E per l’Ue serve una maggiore consapevolezza sul destino dell’isola?
Quando lo scorso anno Emmanuel Macron visitò la Cina fu protagonista di una dichiarazione pubblica che suscitò clamore e mise in difficoltà l’Unione europea: il presidente francese si chiese se fosse nell’interesse europeo accelerare la crisi Taipei-Pechino. E poi aggiunse: “La cosa peggiore sarebbe pensare che su questo argomento noi europei dobbiamo diventare dei seguaci e prendere come esempio l’agenda degli Stati Uniti”. Per Macron, è noto, l’Unione europea ha bisogno di un decennio per diventare autonoma strategicamente, ma se venisse trascinata nel frattempo in un conflitto a Taiwan questo processo si complicherebbe.
Questo ragionamento appare più accademico, da leader di un think tank, che da leader politico, anche perché se dovesse esplodere un conflitto a Taiwan e l’Europa non si muovesse in tandem con le partnership del G7, innanzitutto con gli Stati Uniti, sarebbe la fine dei rapporti transatlantici per come li conosciamo noi la Francia, per quanto le affermazioni di Macron siano state sorprendenti, è il Paese europeo più coinvolto nell’Indo Pacifico, ed è perfettamente consapevole del quadro della situazione.
Con Xi Jinping che torna in Europa, in questi giorni dopo cinque anni, passando proprio da Parigi e da un incontro con Macron (e la presidente della Commissione Ursula von der Leyen), il rapporto Taiwan-Ue, la postura di Bruxelles nei confronti delle dinamiche che toccano Taipei, è un argomento cogente, sebbene, come anticipava Philippe Le Corre (Essec) dal viaggio del leader cinese non c’è da aspettarsi grosse evoluzioni — e il discorso ruoterà più su altrettanto complesse questioni commerciali, ma meno sensibili di quelle geopolitiche. Riguardo a Taiwan, l’Unione europea ha in generale una posizione riassumibile in: speriamo per il meglio, prepariamoci per il peggio.
Tuttavia, l’attenzione europea nei confronti di Taiwan è uno dei fattori che negli ultimi anni hanno segnato un cambiamento nella postura generale europea nei fronti della Cina. Diversi anni fa era quasi un tabù, perché si temeva di indispettire la Cina, ora siamo al punto che nella “EU Indo-Pacific Strategy” del 2021 si scrive: “L’esibizione di forza e le crescenti tensioni negli hotspot regionali come nel Mar Cinese Meridionale e Orientale e nello Stretto di Taiwan possono avere un impatto diretto sulla sicurezza e sulla prosperità europee”.
Questo genere di cambiamento è legato a quattro macro-vicende successe recentemente: il Covid (quando si diceva che solo gli stati autoritari avrebbero gestito la crisi e le masse, Taiwan emergeva per efficienza e veniva vista come un paradigma democratico che poteva avere capacità di controllare la situazione, perché era un modello tecnologico nel farlo: ed è per questo che il ministro della Salute Hsueh Jui-yan scrive appelli come quello pubblicato su Formiche.net per chiedere l’inserimento taiwanese nell’Oms); la coercizione contro la Lituania (quando dopo l’apertura dell’ufficio di rappresentanza lituano a Taipei, Pechino fece embargo commerciale contro Vilnius, l’Ue reagì presentando un reclamo al Wto contro la Cina); l’invasione russa (che ha prodotto un impatto considerevole, perché ha dato una sveglia sul fatto che le tensioni geopolitiche sarebbero state in ascesa anche nel 21º secolo, aprendo a una presa di coscienza generale che potrebbe succedere qualcosa del genere se Pechino attacca Taipei, con effetti maggiori); la visita della ex Speaker della Camera Nancy Pelosi a Pechino nell’agosto 2022 (quando la risposta durissima cinese, con esercitazioni violente ai confini dell’isola, ha mostrato quanto possa essere fragile lo status quo).
A fronte di determinati cambiamenti, c’è comunque qualcosa che non è cambiato. Per esempio, c’è ancora un po’ di timore nel trattare il dossier taiwanese perché si potrebbe provocare la Cina; l’Ue ha ancora un basso livello di priorità geopolitiche e una presenza minima nel quadro securitario dell’Indo Pacifico; c’è quello che viene definito “impegno economico à la carte”; e soprattutto c’è riluttanza a discutere scenari di conflitto.
La maggior parte di Paesi europei continuano a non pensare che ci sia ampio interesse in ballo sulla questione Taiwan. Anche a questo si lega la riluttanza, e per questo si creano casi come quello recente in cui alla vicepresidentessa eletta di Taiwan, Hsiao Bi-khim, è stato proibito di entrare in Germania — mentre era in viaggio personale in Europa — a ridosso della visita del cancelliere Olaf Scholz a Pechino. Secondo le informazioni, Berlino riteneva sconveniente ospitare, anche in via informale, la leader del partito che il Partito/Stato considera indipendentista.
Resta che la stabilità di Taiwan è cruciale per l’Europa. In caso di un’escalation delle tensioni, potrebbero maturare gravi interruzioni economiche, anche senza un conflitto in piena regola. Rhodium Group stima che la scala dell’attività economica a rischio di interruzione da un blocco di Taiwan sia ben oltre 2 trilioni di dollari, anche prima di tenere conto delle risposte internazionali o degli effetti di secondo ordine. Il mercato dei semiconduttori sarebbe il più colpito, ma non l’unico. Al contrario, l’Ue dovrebbe avere un forte interesse a garantire che una fiorente democrazia nel cuore dell’Asia non venga schiacciata, anche perché l’unificazione di Taiwan da parte della Cina avrebbe importanti implicazioni, oltre l’Indo Pacifico, per la sicurezza dell’Europa.
C’è uno scenario di escalation che potrebbe seguire i seguenti passaggi: Pechino intensifica la coercizione economica, la Cina interferisce pesantemente nelle prossime elezioni di Taiwan, lancia attacchi informatici all’infrastruttura critica taiwanese, rivendica i diritti marittimi e aerei legali su Taiwan, stabilisce una dinamica di sicurezza nell’isola dopo un false flag; o ancora: gli Stati Uniti rinunciano alla “One China Policy” e Pechino aumenta la coercizione militare su Taiwan, si crea una collisione accidentale nello Stretto che causa vittime tra le forze statunitensi o cinesi; fino addirittura ad arrivare a Taiwan che dichiara formalmente l’indipendenza, Pechino che occupa isole periferiche e impone una quarantena “pacifica” a Taiwan, e infine la Cina crea un blocco navale e poi lancia l’invasione completa.
E dunque, cosa potrebbe cambiare la situazione e innescare la miccia? Potrebbe esserci un cambio di governo a Taiwan che porta più avanti le posizioni più autonomiste — anche se per ora il nuovo presidente, Lai Ching-te, non sembra essere interessato a spingere su certe tematiche. Ma c’è anche una questione interna alla Repubblica Popolare: la Cina sotto pressione, c’è la necessità di difendere la narrazione esistenziale che riguarda l’unificazione di Taiwan — e davanti a una crescita rallentata della prosperità, l’ideologia potrebbe essere ancora più rilevante. Poi c’è l’effetto delle elezioni negli Stati Uniti, della variabile Donald Trump, ma anche del secondo mandato di Joe Biden — in entrambi i casi Pechino potrebbe percepire dinamiche che la portano a muoversi più assertivamente e rapidamente, anche se per ora Xi non sembra aver fissato una deadline per l’invasione e gli americani uno strappo. Tra le variabili c’è poi l’end game sulll’Ucraina (se la Russia avrà successo e il supporto europeo sarà eroso, ci saranno ripercussioni anche su Taiwan?) e infine i risultati delle Europee (chi e come affronterà questo tema nel prossimo parlamento?).
Il punto che diventa evidente è che l’Europa deve prendere consapevolezza maggiore di essere il primo alleato degli Stati Uniti, e questo comporta delle implicazioni di carattere strategico. Una di queste riguarda il futuro di Taiwan, che non va affrontato solo dal punto di vista commerciale ed economico (comunque cruciale), ma anche con un’ottica politica di ordine superiore.