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TikTok fa causa agli Stati Uniti. Perché e cosa accade adesso

Dopo che il governo americano ha dato una scadenza all’app cinese, costretta a vendere se non vuole essere messa al bando, è arrivata la contromossa. Era prevedibile, ma non per questo banale. Ora i tempi si allungano e la palla passa di nuovo nelle mani di Washington

Era una mossa attesa, ma non per questo banale. TikTok ha deciso di muovere causa contro il governo degli Stati Uniti, intenzionato a varare una legge con cui l’app cinese verrebbe bandita dal territorio americano, a meno che non ci sarà un’acquisizione della piattaforma da parte di un’azienda nazionale. Quella contenuta nel Protecting Americans from Foreign Adversary Controlled Applications Act una “violazione senza precedenti” del Primo emendamento della Costituzione, che tutela la libertà di espressione. “Per la prima volta nella storia”, ha scritto la società nel suo ricorso di 67 pagine (qui il documento integrale offerto dal New York Times), “il Congresso ha adottato una legge che assoggetta una singola, individuata piattaforma di espressione ad un divieto permanente e nazionale”.

Qualora il disegno di legge passasse, “impedirebbe a ogni americano di partecipare a una comunità online unica, con oltre un miliardo di utenti nel mondo. Non ci sono dubbi: la legge costringerà TikTok a chiudere entro il 19 gennaio 2025”. Questo perché la Cina è stata chiara, rifiutandosi di vendere il suo gioiello. “In realtà non c’è scelta”, continua l’azienda nel ricorso presentato. Costringere alla vendita “non è semplicemente possibile: né commercialmente, né tecnologicamente, né legalmente”.

In base a quanto deciso dall’amministrazione Biden, con il supporto dei parlamentari, TikTok avrà nove mesi di tempo per chiarire la sua posizione: o vende o verrà spenta. Il presidente americano potrebbe posticipare la data di tre mesi, ma con il ricorso appena presentato le tempistiche devono essere totalmente riscritte, visto che si allungheranno notevolmente in attesa che venga accolto o respinto.

Il motivo della legge è la sicurezza nazionale, messa a repentaglio dall’algoritmo che regola la piattaforma, mosso secondo Washington in base ai diktat di Pechino. La Cina, insomma, utilizzerebbe TikTok per promuovere i suoi interessi all’estero, spionaggio compreso, specie negli stati rivali.

La vicenda va avanti da diverso tempo, durante cui l’app di ByteDance ha provato a fugare le preoccupazioni degli americani. Lo ha fatto sborsando diversi milioni di dollari negli ultimi quattro anni, volti a finanziare il Progetto Texas, un piano per gestire dagli Stati Uniti (e non dalla Cina) le questioni più spinose per il pubblico americano, anche con l’aiuto del gigante tecnologico Oracle. Doveva essere un progetto salvavita per TikTok, ma la strada intrapresa dal governo sembra andare in un’altra direzione. “Il Congresso ha messo da parte questo accordo ad hoc, a favore di un approccio politicamente conveniente e punitivo, che prevede l’eliminazione di un editore e di uno speaker” mediatico.

Il Congresso ha messo da parte questo accordo su misura, a favore di un approccio politicamente conveniente e punitivo, che prevede l’eliminazione di un editore e di un oratore.

Uno dei problemi è cosa propone l’applicazione. Secondo alcuni i contenuti che vengono pubblicati possono influenzare l’opinione pubblica, mostrando e censurando materiale. Un’accusa da cui TikTok e il governo cinese si discostano con forza, affermando che tutto avviene secondo le regole senza che una mano esterna possa intervenire.

La palla ora (ri)passa al governo statunitense, chiamato a dimostrare che la sua legge abbia senso di esistere in quanto le minacce rappresentate da TikTok sono reali. Si tratta anche di una sfida elettorale per il presidente Biden, che vorrebbe arrivare laddove il suo avversario Donald Trump avrebbe voluto, senza però riuscirci. Ma non sarà facile: in primis perché potrebbe rivelarsi un boomerang, dato che gli elettori più giovani hanno un profilo TikTok (lo stesso Biden ne ha aperto uno per cercare di raggiungerli durante la campagna elettorale); subito dopo in quanto, di fronte a un fallimento, sarebbe una sconfitta cocente. Molto probabilmente, a mettere la parola fine su questa diatribe dovrà essere la Corte Suprema.


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