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Perché gli Usa non forniranno a Israele le armi per invadere Rafah

Per la prima volta Biden l’ha detto pubblicamente: non daremo armi a Israele per attaccare Rafah. La mossa racchiude un messaggio, diretto a Netanyahu, all’elettorato democratico e agli attori internazionali che si muovono attorno alla crisi

Washington fa sul serio. Joe Biden invia un messaggio pubblico molto esplicito a Benjamin Netanyahu: se Israele invaderà Rafah, gli Stati Uniti non forniranno le armi. Ed è la pubblicità di questo messaggio a farlo essere serio, non l’assenza della fornitura nella specifico – perché la Casa Bianca ha specificato con esattezza che l’impegno di difendere lo Stato ebraico è inscalfibile. Per il premier israeliano la situazione è però sempre più complicata, perché la perdita di aliquote di sostegno internazionale è ormai evidente, ma per il piano interno non può non attaccare la città al confine egiziano — dove sono rifugiati circa un milione di gazawi fuggiti dalle aree del nord già devastate dalla guerra aperta da Hamas con l’attentato del 7 ottobre. E non può non farlo perché la promessa di annientare Hamas passa da lì, dalle ultime guarnigioni assiepate in mezzo alla massa di civili, probabilmente coordinate dal posto dal leader terroristico Yayah Sinwar. E però, l’attacco su larga scala rischia di produrre una carneficina, di far saltare ogni genere di negoziato, di diventare la miccia per l’esplosione regionale del conflitto. Per questo è politicamente insostenibile.

Un problema elettorale

Biden pensa anche al piano interno, con le proteste che hanno sconvolto la quiete accademica dei campus universitari statunitensi (alcuni dei più importanti del mondo), e il rischio che un eccessivo (ed eccessivamente visibile, soprattutto) appoggio a Israele possa produrre effetti elettorali. C’è un esempio preoccupante: secondo il Local Democracy Reporting Service britannico, il successo dei candidati indipendenti in molti dei quartieri interni di Bradford, città dello Yorkshire & Humber, è legato all’insoddisfazione per il modo in cui il partito laburista nazionale ha gestito la guerra a Gaza. Ossia, c’è un primo dato — pesato — su come l’appoggio della politica londinese a Israele abbia influenzato le decisioni elettorali di alcune constituency. In 58 circoscrizioni del consiglio locale analizzate dalla BBC, dove più di 1 residente su 5 si identifica come musulmano, la quota laburista dei voti è stata in calo del 21% rispetto al 2021 (l’ultima volta che la maggior parte dei seggi sono stati votati).

E negli Stati Uniti tra pochi mesi andranno al voto collegi elettorali dove il voto del mondo musulmano ha influenza, e più la guerra dura e più si incattivisce, più durano le proteste e più le istanze che rappresentano attecchiscono. A fine febbraio, Dearborn, Dearborn Heights and Hamtramck, tre città del Michigan hanno per esempio voltato le spalle a Biden durante le primarie Dem, con più di 100.000 elettori registrati democratici che hanno votato come ”uncommitted”, abbastanza per raccogliere due delegati da inviare alla Convention che ad agosto ci sarà allo United Center di Chicago. Sono numeri ininfluenti, Joe Biden sarà nominato candidato, ma sono simbolici (il rischio è l’epidemia). “Nella città di Dearborn abbiamo dimostrato che la questione di Gaza non è una questione che riguarda solo gli arabi americani e i musulmani americani. Ma questo è un problema per tutti gli americani da costa a costa”, aveva commentato il sindaco democratico Abdullah Hammoud – il cui nome non nasconde le origini: classe 1990, nato proprio a Dearborn da una famiglia operaia sciita libanese che gli ha permesso (in pieno sogno americano) studi in biologia all’Università del Michigan e successivo master in Salute pubblica. Qualcosa di simile al Michigan – da sempre swing state, quest’anno di nuovo determinante per la corsa presidenziale – è successo anche in Minnesota per esempio, con l’ampia minoranza somala (tendenzialmente dem) che non ha apprezzato le scelte della Casa Bianca.

La questione internazionale

Biden ha minacciato che gli Stati Uniti smetteranno di fornire al governo radicale di Netanyahu proiettili di artiglieria, bombe per jet da combattimento e altre armi offensive. Ed è stata la prima volta che il presidente americano (o qualsiasi altro funzionario della sua amministrazione) ha detto che un’operazione di terra militare israeliana a Rafah comporterà un arresto della fornitura di armi offensive a Israele. L’amministrazione Biden si è già opposta a un’ampia operazione di terra delle forze di difesa israeliane a Rafah che non include un piano credibile per proteggere i civili. E ha già sospeso una spedizione di armi in Israele che includeva 1.800 bombe da duemila libbre e altre 1.700 bombe di dimensioni minori. Il Pentagono ha confermato quello che nei giorni scorsi è stato uno scoop di Axios. “Non sono entrati nei centri abitati. Quello che hanno fatto era proprio al confine, e in questo momento sta causando problemi con l’Egitto”, ha detto Biden alla CNN — che con un’intervista ha fornito il palcoscenico per l’avviso del presidente democratico.

La questione che riguarda l’Egitto solleva l’altro livello del problema che l’attacco di Netanyahu creerebbe agli Stati Uniti: quello sul piano internazionale. Il Cairo sarebbe il primo a risentire della situazione, soffrendo un esodo che Abdel Fattah al Sisi non è in grado di gestire — né economicamente né politicamente — e dunque mettere in crisi gli ingranaggi del regime, che in qualche modo si sentirebbe costretto a un’assistenza umanitaria che però avrebbe effetti sul piano sociale interno. E la stabilità egiziana è una prerogativa regionale, soprattutto nel Golfo — che negli ultimi due anni ha dato ossigeno ad al Sisi con iniezioni di fondi per sostenere anche il programma di sussidi che gli garantisce sopravvivenza politica. L’attacco a Rafah complicherebbe anche la situazione con l’Arabia Saudita, con cui gli Usa stanno mediando il cosiddetto “mega-deal” che dovrebbe passare dalla normalizzazione dei rapporti del regno con lo Stato ebraico — processo che diventerebbe meno potabile (almeno in termini temporali, anche considerando che la leadership saudita che inizia a chiamare la guerra israeliana “genocidio”) davanti a una eventuale carneficina a Rafah. Poi c’è la sfera ancora più strategica: attori come la Cina potrebbero approfittare della situazione umanitaria, che con ogni probabilità la guerra a Rafah andrà a complicare, per esporre pubblicamente negatività e incoerenze americane — piatto tipico del menù narrativo di Pechino, come successo nei giorni scorsi in Serbia.



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