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Un Vangelo da supermarket. La recensione di Ciccotti

Tratto da un romanzo di Barbara Alberti, “Vangelo secondo Maria” (1979), il film omonimo (2024) di Paolo Zucca propone una Maria ribelle, proto-femminista, che non vuole avere un figlio. Benedetta Porcaroli e Alessandro Gassmann danno una buona prova ma il soggetto, troppo d’avanguardia, non scalda lo spettatore. Un film pensato per i Paesi protestanti? Una nota di Eusebio Ciccotti

Il diplomatico Voltaire divideva i libri in capolavori e noiosi. In caso di pareri negativi evitava parole o costrutti quali “brutto”, “vergognoso”, “non artistico”. Per Vangelo secondo Maria di Paolo Zucca incontro difficoltà nel definirlo. Poiché l’idea del soggetto non sarebbe malvagia: inventarsi una Maria adolescente, inizialmente birichina, a volte disubbidiente, con qualche bugia bianca e poi quasi convinta del suo destino non sarebbe stato irrealistico. Ma la sceneggiatura (2023) di Paolo Zucca, Barbara Alberti e Amedeo Pagani, tratta dal romanzo di Barbara Alberti (1979), forse esagera, volendo sbalordire lo spettatore con scelte “d’avanguardia”, che sarebbero piaciute a André Breton e Louis Buñuel (un omaggio involontario al centenario del movimento francese?).

Infatti la Maria-Benedetta Porcaroli è un ultra adolescente che corre nella Nazareth, ricreata negli essenziali villaggi sardi, come un “maschiaccio”. Pronta ad arrotolarsi il lungo vestito a metà coscia, mostrando la semi-nudità a tutti gli scioccati astanti, per sfidare dei ragazzi, che la stanno prendendo in giro, in un’eventuale zuffa. Già al terzo minuto di proiezione: da far pensare alla anarchica irriverenza di un Jean Vigo.

E poi il suo rifiuto di sposare il figlio del rabbino, la voglia di vestirsi come un maschio, lasciare il paese per andare ad Alessandria per studiare e non fare la vita di tutte le donne sottomesse e obbligate al matrimonio. Beh, che dire? È davvero un soggetto che acchiappa (nell’idea degli autori) tutti. Almeno una buona fetta dell’universo femminile. Soprattutto le indipendenti adolescenti e ventenni che intendono rincasare alle sei della domenica mattina dopo le loro “esperienze”; le giovani donne laureate dall’immancabile refrain “dal mio punto di vista”, e, infine, le nostalgiche sessantenni che per poco, con gran rammarico, hanno lisciato il ’68 (avevano sei o sette anni) ma vorrebbero viverlo prima della casa per anziani.

Insomma, quale ragazza o donna spettatrice non accetterebbe la Maria ribelle della brava Porcaroli? Siamo, pare ci dicano gli sceneggiatori, per bocca delle donne di tutto il mondo, stanchi delle ragazze remissive come Bernadette Soubirous, o quelle bambine innocentemente fessacchiotte e analfabete di Fatima. O quelle esaltate di Medjugorje che dicono di parlare con la Gospa da quarant’anni. “Anch’io parlo da 20 anni con la mia Fifì, e mi risponde scodinzolando”, ti risponderebbero. Stanche della Maria “oleografica” di Franco Zeffirelli o di quella “drammaticamente mesta” di Mel Gibson, ecco la proposta di una Maria simil-dadaista.

Il cugino di Maria, Giovanni, un dodicenne, recita laconicamente una sola battuta decontestualizzata, come in un testo di Samuel Beckett: «Sarò profeta e mi taglieranno la testa». Poi, sparisce per tutto il film. Per quanto Benedetta Porcaroli (25enne) metta in campo tutta la propria bravura appare forzata nella serie di improbabili ribellioni di una quindicenne di duemila anni fa. Poco veritiere le figure dei genitori di Maria. Giaochino, pesante e volgare; Anna, anch’essa greve e scorbutica. Che bisogno c’era di far sentire durante la notte, a Maria, mentre si addormenta, padre e madre nel loro rapporto sessuale?

Qualche scollamento di sceneggiatura poteva evitarsi. Quando Giuseppe (nel film lei lo chiama quasi sempre “Maestro”) si presenta a casa di Gioachino e Anna, come unico del villaggio pronto a sposarla, e gli viene presentata Maria, egli stupito dice, “Sei tu?”. Domanda banale. Come se Giuseppe avesse concordato senza capire di quale ragazza si trattasse: in un paese di trecento anime.

Apprezzabile, invece, il brevissimo omaggio al cinema classico: l’angelo dell’Annunciazione è un ragazzo alla Chaplin, con le ali fatte di penne. Maria inizialmente accetterà il volere di Dio, successivamente proverà a scappare dal suo destino; ma il buon Giuseppe (misurato Alessandro Gassmann), pazientemente, la sosterrà fino a trovare un asino per attraversare il deserto, magari verso Alessandria, a studiare.

Vangelo secondo Maria è fotografato con cura, grazie ad un’illuminazione a candela, da Simone D’Arcangelo; il montaggio di Marco Spoletini non è mai scontato. La regia di Zucca, ha dei bei passaggi ellittici in cui la camera carrella in avanti lasciando il personaggio per poi recuperarlo successivamente a fine carrellata, già arrivato lì, per magia (soluzione antinaturalistica: il primo fu F.W. Murnau in Der letzte Mann, 1924).

Ma di un film ben diretto, ben girato, ben fotografato, cosa mi rimane se la storia non mi scalda ma segue il gusto del supermarket dei luoghi comuni? Ossia, smontare le figure della fede cattolica con gesto pseudo-dadaista con la speranza di riempire le sale (che pare siano vuote). Mentre Martin Scorsese promette a Papa Francesco un nuovo film sulla vita di Gesù, Zucca, Alberti e Pagani inventano una improbabile vita di Maria adolescente (con finanziamenti ministeriali) senza essersi letti dei libri che li avrebbero illuminati, quali quelli di Maria Valtorta.

Tornando a Voltaire, Vangelo secondo Maria non sembra un capolavoro. Appare leggermente noioso per chi conosce la figura di Maria. Sicuramente un film furbo, un fishing, per i cattolici meno preparati, e, soprattutto, un prodotto proiettato sul mercato dei Paesi protestanti.

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