La chiave del successo, il bifrontismo, la capacità di catalizzare il consenso e soprattutto la disintermediazione come cifra politica. Si rivolgeva direttamente alle persone, essendo anche un mago della televisione. Meloni ha raccolto una parte del suo elettorato ma ha tratti stilistici differenti. Conversazione con il politologo Piero Ignazi, a un anno dalla scomparsa di Silvio Berlusconi
Com’è possibile, un anno senza te cantavano i Santo California. Il 12 giugno del 2023, se ne andava Silvio Berlusconi. Sarebbe difficile, perfino rischioso, provare a descrivere cosa fu nella vita il Cavaliere. Ci limitiamo a ricordare l’uomo politico, la sua ascesa dirompente nel 1994, i suoi picchi e i suoi abissi. E lo facciamo prendendo spunto dal volume del politologo Piero Ignazi, Il populista in doppiopetto. Il Cavaliere e il suo partito edito da Il Mulino. Proprio con il docente dell’Università di Bologna, abbiamo cercato di capire cosa resta, oggi, del tratto politico del fondatore di Forza Italia.
Partiamo dal titolo del suo volume. Cosa rendeva Berlusconi un populista dal suo punto di vista?
Il termine è usato in accezione asettica e racchiude quella che più di altre sintetizza la cifra politica di Berlusconi: la disintermediazione. Lui si rivolgeva direttamente al suo popolo, anche attraverso le televisioni di cui era un mago. E d’altra parte riuscì, attraverso il suo modo di fare, a intercettare una parte vastissima – penso al periodo del Pdl in auge – dell’elettorato. Una fetta di persone che, ora, guarda a Meloni.
È lei la sua erede politica?
Per certi versi sì, benché Berlusconi sia stato un grande innovatore e un grande comunicatore. Non c’è dubbio però che alcuni tratti siano comuni: dall’anticomunismo poi declinato nell’ostilità verso la sinistra in generale, l’aggressività verso gli avversari politici, la capacità di raccolta del consenso. A differenziarli, però, c’è un elemento che è tanto caratteriale quanto politico.
Ossia?
Berlusconi voleva essere amato da tutti, chiudeva le liti con una battuta. Meloni è invece irosa e rancorosa, perché vuole essere temuta. Questa caratteristica è sicuramente figlia di un carattere differente tra i due ma è figlia anche di una provenienza politica e di una formazione profondamente distanti. Il Cavaliere frequentava ambienti moderati, democristiani, socialisti. Lei, invece, è figlia della cultura neofascista.
Quanto c’è di vero nel fatto che l’erede politico di Berlusconi sia stato, pur da prospettive diverse, Matteo Renzi?
Ben poco c’è di vero in questa lettura. Al massimo Renzi è stato l’erede di Bettino Craxi. Aveva ben poco Renzi in comune con Berlusconi.
Però era innegabile che ci fosse un legame tra Berlusconi e Craxi.
C’era, ma era legato alle televisioni e magari a un idem sentire su alcune questioni. Ma non c’era comunanza politica.
Oggi in Senato si ricordava il fondatore di Forza Italia, ma il Movimento 5 Stelle ha scelto di non partecipare. Come valuta questa decisione?
Molto in linea con la loro storia politica. Sono stati da sempre un movimento anti-berlusconiano e ora rivendicano questa posizione in maniera del tutto coerente. Grillo è stato fortemente anti-berlusconiano.
Chi è stato l’avversario, per eccellenza, di Berlusconi?
Non mi piace parlare di anti-berlusconismo perché spesso lo si usa in chiave di commiserazione. Però, politicamente, il più grande oppositore di Berlusconi fu Romano Prodi che gli si contrappose politicamente. Contrastò la sua politica, più che l’uomo in sé.
Quale fu la chiave del successo di Berlusconi?
Il suo essere bifronte. La sua candidatura di rottura, la sua originaria estraneità alla politica. Un bagaglio che si portò dietro per tantissimo tempo e che gli diede moltissimo successo. Il primo, vero, leader anti-politico.