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Utopie cinesi. Pechino e il mito della de-dollarizzazione

Da anni Pechino porta avanti la sua crociata personale contro  la moneta statunitense, con l’obiettivo di spostare il baricentro monetario globale. Ma accordi tra i Brics, nuove piattaforme di scambio e il metadone dei soldi pubblici non bastano. Ecco perché

La de-dollarizzazione rimane in Cina un obiettivo da raggiungere a tutti i costi. Sono anni che Pechino prova a fare dello yuan il nuovo baricentro monetario globale, sognando di scalzare, un giorno o l’altro, il dollaro, cercando sponde tra i Brics. Premesso che lo yuan cinese in queste ore ha toccato il suo minimo di sei mesi rispetto al dollaro, anche alla luce del mantenimento di alti tassi d’interesse negli Usa, il Dragone non demorde. E cosa fa?

Come racconta Zongyuan Zoe Liu, fellow per gli studi sulla Cina presso il Council on Foreign Relations, in un report pubblicato sul Forum delle banche centrali mondiali, l’Omfif, “la sicurezza finanziaria è diventata una parte indispensabile della narrazione nazionale cinese a partire dalla crisi finanziaria asiatica del 1997. Le crescenti tensioni geopolitiche con gli Stati Uniti, dal 2018 e le sanzioni finanziarie dell’Occidente contro la Russia hanno ulteriormente incentivato i politici cinesi a rafforzare l’economia diluendo la centralità del dollaro e sviluppando un sistema alternativo”.

A tal fine, il governo cinese ha messo a terra la sua strategia. “In primo luogo, la Cina ha sostenuto e promosso la cooperazione valutaria e finanziaria regionale e multilaterale attraverso partenariati regionali o non occidentali”, scrive Liu. “Il governo cinese si è poi impegnato con l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e gli altri paesi membri del Brics (Brasile, Russia, India e Sud Africa, ndr) per promuovere l’utilizzo delle valute locali nel commercio, negli investimenti e nella finanza per lo sviluppo”.

Ancora “la Cina ha tentato di ampliare l’uso del renminbi nel commercio e negli investimenti internazionali, promuovendo al contempo le infrastrutture finanziarie internazionali basate sullo yuan. E, dalla crisi finanziaria del 2008, il governo cinese ha investito risorse nello sviluppo di un’infrastruttura finanziaria basata sul renminbi”. Insomma, yuan ovunque e zero dollari. Non è finita. Oggi Pechino “mira a migliorare il ruolo della sua moneta nella determinazione dei prezzi delle materie prime a livello globale, in particolare nella transizione verso l’energia pulita. Non ha caso il Paese ha sviluppato diverse piattaforme di scambio di materie prime, come il mercato dei futures denominato in yuan e le borse delle materie prime”.

Eppure tutti questi sforzi, non porteranno al tanto agognato disarcionamento. E questo per un motivo molto semplice: la mancanza di libertà in Cina. Senza di essi, gli investitori non osano più di tanto. Ed è lo stesso documento firmato da Liu a metterlo nero su bianco. “I controlli sui capitali, combinati con la mancanza di attività denominate in renminbi prive di rischio, la natura relativamente chiusa del mercato finanziario cinese, la preferenza del presidente Xi Jinping per il governo di un solo uomo rispetto allo stato di diritto e l’erosione dei principi di mercato, sono oggi il vero ostacolo all’ascesa dello yuan come valuta di riserva internazionale in grado di sfidare credibilmente il dollaro”.

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