Non la tripletta von der Leyen-Costa-Kallas. La cosa più importante degli incontri a Bruxelles è l’apertura dei negoziati di adesione con Ucraina e Moldavia. È un passo senza ritorno. Ecco implicazioni e scenari. L’analisi dell’ambasciatore Stefano Stefanini
L’Europa sta distrattamente attraversando il Rubicone. Cioè facendo un passo senza ritorno ma pensando ad altro. La distrazione è la controversia sugli incarichi apicali dell’Unione europea del prossimo quinquennio. Il Rubicone è l’apertura dei negoziati con Ucraina e Moldavia per l’ingresso nell’Unione.
Nell’agenda, nella mente e nei calcoli dei leader i primi sono la questione dominante del Consiglio europeo che inizia oggi o per chiudere la partita con la tripletta Ursula von der Leyen–António Costa–Kaja Kallas o per sabotarla o per il risentimento di chi lamenta l’esclusione dal campo di gioco. Non è certo il caso di sottovalutarne l’importanza ma rientrano nella normale manutenzione quinquennale dell’Ue. Invece, con l’avvio del processo che dovrebbe condurre all’ingresso di Chisinau e di Kyiv nell’Unione, l’Europa si avventura su un terreno inesplorato con conseguenze che vanno ben oltre, temporalmente e strategicamente, del ciclo istituzionale 2025-2029. Non è il solito allargamento che si risolve – o si impantana – in una defatigante trattativa su 35 capitoli negoziali. È un’impresa trasformativa della bilancia di potere politico ed economico nel continente. In parole povere, ma chiare: se condotta a termine, rafforza l’Unione europea e indebolisce la Russia; se naufraga, il contrario. È una grande avventura. Dalla quale, come avviene ai protagonisti di tutte le grandi avventure, l’Europa può uscire più forte – non fosse altro che per essersene dimostrata capace – o malconcia e, in ogni caso, trasformata.
Oggi e domani, i leader ne parleranno poco perché sono tutti concentrati sull’approvazione o meno delle nomine. Per quanto comprensibile, specie in un’ottica di politica interna dalla quale nessuno di loro può prescindere, fa di questo Consiglio europeo un dibattito sui posti a tavola senza discutere del menù e dei vini che saranno serviti. Nel caso dell’Italia, la nota dolente è la non partecipazione all’assegnazione. Anche questo è comprensibile, al punto che a sollevarla è persino il presidente della Repubblica. Se però l’obiettivo di Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, è di “contare” a Bruxelles, sono due i criteri e precedenti ai quali fare riferimento. Derivano pari pari dalle ultime due Commissioni. Nel 2014, Matteo Renzi piazzò Federica Mogherini nella terna, come Alto rappresentante – rinunciando alla possibilità di avere Enrico Letta presidente del Consiglio europeo, vuoi mai che gli desse ombra – poi instaurò un rapporto verbalmente litigioso con Bruxelles. L’Italia ebbe successivamente anche la presidenza del Parlamento europeo, con Antonio Tajani (2017-2019); Mario Draghi pilotava la Banca centrale europea. Ma fu forse il periodo in cui l’Italia contò di meno a Bruxelles, per all’approccio infelicemente conflittuale – sempre a parole – del nostro governo, prima Renzi, poi Conte I, malgrado l’intervallo di ricucitura dei due anni di Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi. Situazione corretta nell’ultimo quinquennio, grazie sia a un commissario efficace (Gentiloni), anche se dal titolo meno altisonante (commissario europeo per gli affari economici), sia e soprattutto grazie al rapporto costruttivo dei tre governi succedutisi, prima, complice il Pnrr, da Conte II, poi rafforzato da Draghi e mantenuto da Meloni. Quanto a “posti” la situazione fu identica in Parlamento, dove l’Italia ebbe David Sassoli per circa mezzo mandato, ma a Francoforte finiva il mandato di Draghi. Eppure, contammo di più. A buon intenditor… per avere influenza a Bruxelles conta innanzitutto la politica che si fa a Roma, in secondo luogo lo spessore di chi ci rappresenta in Commissione.
Passiamo dai posti al menù. Cinque anni fa von der Leyen sorprese molti dicendo di volere una Commissione “geopolitica”. Se, come probabile, confermata per un secondo mandato – passato il Consiglio di questi due giorni dovrà scalare 361 gradini di voti necessari in Parlamento, sicuri solo sulla carta – non avrà bisogno di ripeterlo. Mutuando Lev Trotskij, l’Ue può anche decidere di non essere interessata alla geopolitica, tanto ormai è la geopolitica che è interessata all’Ue. Aprendo la porta a Ucraina e Moldavia, l’Unione diventa attore geopolitico di primo piano. Se, in un orizzonte temporale ragionevole (2030?), i due Paesi entrano, il revisionismo imperiale russo viene fermato e ridimensionato, democrazia e stato di diritto si impiantano in un pezzo consistente dello spazio ex-sovietico, si definisce e stabilizza una linea di demarcazione in Europa, quanto di ferro o d’argilla dipenderà dagli epigoni di Vladimir Putin e Aleksandr Lukashenko. Se, rimangono in sala d’attesa o sono respinti dal prevalere delle forze anti-allargamento nell’Ue, a parte le conseguenze su ucraini e moldavi, non ultima il consolidamento della presenza di milioni di rifugiati nell’Unione, l’Ue si ritrova fra le mani un fallimento strategico. Quand’anche nel frattempo facesse qualche reclutamento nei Balcani, dove ci sono candidati che meritano l’adesione come Montenegro o Albania – altri devono decidere cosa vogliono – diventa psicologicamente e politicamente più piccola e povera. Con le candidature di Chisinau e Kyiv, fra le due alternative non c’è via di mezzo, né per loro né per l’Unione europea.
Questo significa anche che l’Europa entra in una terza fase. In un’Ue con dentro l’Ucraina gli equilibri e le dinamiche saranno diversi da quelli che conosciamo, così come sono cambiati dopo gli allargamenti ai Paesi dell’Europa centrorientale – anche se abbiamo fatto finta di non rendercene conto. Sarà un terzo salto, dopo quello determinato dalla caduta del Muro di Berlino, che ci allontanerà ancor di più dalla visione federalista e dai tempi eroici descritti con nostalgia all’inizio del bel libro di Paolo Valentino “Nelle vene di Bruxelles”. Ma tant’è. Non scegliamo la storia; scegliamo nella storia. Non c’è ritorno al passato. L’alternativa a un’Europa con dentro l’Ucraina è un’Europa con le ossa rotte, che è quello che vogliono forze politiche come il Fronte Nazionale francese e Alternative für Deutschland tedesca; o un’Europa che elargisce soldi ma non fa politiche come vorrebbe la Fidesz ungherese. Fallire non è un’opzione, dissero sull’Apollo 13; speriamo lo pensino anche i leader che stasera o domani danno il via ai negoziati di adesione di Ucraina e Moldavia.