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Ecco il falso bersaglio della polemica sull’autonomia differenziata. L’analisi di Polillo

Non bisogna cadere nella trappola, la legge appena approvata ha una sua coerenza interna, salvo alcuni angoli bui evidenziati negli ordini del giorno accolti dal governo. Su cui occorrerà vigilare. Mentre le critiche di merito, che pure sono state avanzate, almeno a parere di chi scrive, non hanno un grande fondamento

Sinistra attenta! Sull’autonomia differenziata stai rischiando di portare il Paese lungo una deriva più che preoccupante. Quell’opposizione muro contro muro, accompagnata dai propositi referendari, somiglia troppo da vicino alle vicende della scala mobile. Allora, nel lontano giugno del 1985, Enrico Berlinguer aveva giocato malamente tutte le sue carte nel tentativo di battere nelle urne, con un referendum abrogativo, la vecchia proposta di Ezio Tarantelli, prima che fosse stato assassinato dalle Br. Quel giocare d’anticipo contro l’inflazione, limando di qualche punto l’indicizzazione dei salari. Fu una sconfitta clamorosa, che segnò profondamente il successivo corso degli eventi.

Nel caso dell’autonomia differenziata è ancora peggio. Se allora vi fu avventurismo, oggi, invece, prevale la grande incoerenza di chi ha lanciato il sasso, per poi nascondere la mano. Le modifiche costituzionali, che portarono alla riforma del Titolo V, non nacquero per caso. Furono la conseguenza delle complicate alchimie all’interno del Pci. La Lega di Bossi li aveva spiazzati, proclamandosi paladina del Nord. Andava contrastata, avventurandosi lungo la linea del federalismo, intestandosi la soluzione del problema, grazie a modifiche di carattere costituzionale più volte tentate nel corso della legislatura. Ma mai andate a buon fine.

La soluzione si trovò in zona Cesarini. Nelle ultime settimane utili, prima dello scioglimento delle Camere, il tema del federalismo si intrecciò con il problema della scelta del leader che avrebbe dovuto sfidare Silvio Berlusconi. Si decise quindi per Francesco Rutelli, al quale si promise di accelerare sulla riforma del Titolo V per ridurre l’ipotetico vantaggio leghista. E così fu: grazie ad una serie di forzature delle regole parlamentari. Che si resero necessarie, per giungere al varo del sospirato provvedimento l’ultimo giorno utile (8 marzo 2001) prima della chiusura delle Camere e l’avvio della campagna elettorale. Che poi segnò la sconfitta del Centro sinistra a vantaggio dei suoi avversari.

É bene ricordare che, dato il contesto politico che fece da sfondo alla vicenda, in Parlamento la riforma non fu approvata con il prescritto quorum dei due terzi. Il 7 ottobre del 2001, quando ormai Berlusconi aveva preso possesso di Palazzo Chigi, si svolse, pertanto, il relativo referendum confermativo. Vi partecipò il 34,1 per dei votanti. I voti a favore furono pari al 64,2 per cento. Maggioranza, che rapportata al totale degli elettori, fa un quoziente inferiore al 22 per cento. Dati che andrebbero incorniciati prima di andare avanti con propositi suicidi. Tenendo conto del fatto che l’eventuale referendum abrogativo sarà valido solo in presenza di un numero di votanti superiore al 50 per cento degli aventi diritto. Dato lontano mille anni luci dalle prospettive più recenti.

Nel 2001 Elly Schlein aveva appena sedici anni. Comprensibile quindi il fatto che, per essersi così esposta sul fronte dell’antagonismo, non conoscesse questo retroterra. Sennonché, una volta cresciuta, correva l’anno 2018, come ci ricorda Claudio Cerasa, direttore del Il Foglio, eccola in prima linea, insieme al presidente Stefano Bonacini, a richiedere una maggiore autonomia per la sua regione: l’Emilia Romagna, di cui era vice presidente. E l’anno dopo il testimone era passato nelle mani di Francesco Boccia, ministro per gli Affari regionale del governo Conte, ed oggi suo supporter, pronto nel reiterare la richiesta di una rapida attuazione degli articoli 116 e 117 della Costituzione.

Quella colpa che ora si imputa al Ministro Roberto Calderoli. Ci vorrebbe un minimo di coerenza e continuità. Cambiare idea è sempre legittimo, ma a condizione che se ne spieghino le ragioni. Altrimenti è pura isteria. Denunciare il rischio di possibili sfracelli, all’insegna dello slogan “un provvedimento che spacca il Paese” può essere un espediente di propaganda. Quanto efficace non sapremo dire. Quel che è invece certa è la contraddizione logica che ne è sottesa. La legge appena approvata non innova rispetto al testo costituzionale. Ne dà solo attuazione. Poteva, forse, essere scritta diversamente, ma questo conta poco. L’importanza è che risponda pienamente ai prescritti parametri di costituzionalità. Cosa che nessuno ha contestato.

Ne deriva pertanto che se qualcosa rischia di spaccare il Paese, secondo la denuncia della Schlein o di Conte, il pericolo è racchiuso nella norme primarie. Vale a dire in quel progetto di cambiamento, insito nel Titolo quinto, che la sinistra ha elaborato, presentato ed alla fine votato tanto alla Camera quanto al Senato. E poi ratificato nel l suffragio referendario. Che, a sua volta fu caratterizzato dall’attivismo del centro sinistra e l’imbarazzo del centro destra. La Lega a favore, Alleanza Nazionale contraria e Forza Italia distante e poco interessata.

Se questa fosse quindi la preoccupazione effettiva – vale a dire la spaccatura del Paese – la sinistra dovrebbe proporre un cambiamento radicale, se non la pura e semplice abrogazione, delle norme primarie, risparmiandoci la pantomima su tutto il resto. Altrimenti quei principi costituzionali continuerebbero ad essere un macigno sospeso sulla vita della Repubblica. Sarà in grado di farlo? Ne dubitiamo per una e mille ragioni: Non ultima la motivazione di un cambiamento di opinione così radicale: da principali artefici a totali detrattori. Tra l’altro un paradosso nel paradosso. Sarebbe una delle prime volte in cui la sinistra non chiede di dare attuazione alla “Costituzione più bella del mondo”, ma di tornare alle origini, dopo averla improvvidamente modificata. Contraddizioni su contraddizioni che la furia iconoclasta, mostrata in questi ultimi giorni, cerca solo di nascondere.

Non bisogna cadere in questa trappola. La legge appena approvata ha una sua coerenza interna, salvo alcuni angoli bui evidenziati negli ordini del giorno accolti dal governo. Su cui occorrerà vigilare. Le critiche di merito, che pure sono state avanzate, almeno a parere di chi scrive, non hanno un grande fondamento. Le debolezze dell’intero disegno emergeranno, semmai, durante la fase di attuazione. Le procedure previste sono quanto mai complesse. Richiedono una plancia di comando che finora l’Amministrazione ha dimostrato di non possedere. Presuppongono una partecipazione responsabile da parte di tutti i soggetti istituzionali, chiamati a darne attuazione. La loro capacità di anteporre gli interessi nazionali ad un tornaconto più immediato, in difesa del quale si può correre il rischio di mandare tutto alla malora.

Per questo è necessario che le forze politiche nazionali mostrino un sussulto di responsabilità. La storia dell’Italia è stata continuamente segnata da momenti in cui le jacquerie, gli scontri localistici, l’esasperazione municipalistica l’hanno fatta da padrone. Mai dimenticare quel grido boia chi molla che, negli anni ’70, fu al centro di una vera e propria rivolta dai tratti sanfedisti. Sono cose che l’Italia in un momento così difficile non può permettersi. Ed, allora, meglio prevenire che stracciarsi le vesti una volta che quel latte potrebbe essere versato.



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