Skip to main content

Riforme costituzionali, l’inconciliabilità degli opposti nella visione di Veltroni spiegata da Polillo

Rafforzare governo e Parlamento, non è possibile. Ne consegue che occorre individuare un arbitro diverso per dirimere gli inevitabili contrasti, che sono il sale della democrazia. E allora non resta che ridare lo scettro al popolo, convocandolo, quando è necessario, in libere elezioni per il responso definitivo. Troppo semplice, per non dire semplicistico? Un’anomalia, rispetto all’esperienza storica delle democrazie europee? Il commento di Gianfanco Polillo

Per cogliere l’elemento di incompiutezza, che caratterizza l’ultimo intervento di Walter Veltroni, dalle pagine del Corriere della sera, sul tema delle riforme costituzionali, bisogna iniziare dalla fine. Si “sarebbe dovuto partire, – osserva l’ex segretario del Pds, – in un confronto sereno con le opposizioni, dal problema — chi può negarlo? — del rafforzamento simmetrico dei poteri di decisione del governo e di quelli di controllo del parlamento per individuare le giuste soluzioni”.

Il confronto presuppone sempre l’esistenza, come minimo, di due controparti. Non solo due soggetti fisici distinti. Ma caratterizzati entrambi dalla voglia di dialogare nel ricercare un possibile “accordo” che, per stessa ammissione di Veltroni, in politica “non è una bestemmia.” Difficile non convenire. Da questo punto di vista ci riesce alquanto difficile immaginare una maggioranza chiusa ad ogni possibile contributo ed un’opposizione, invece, vogliosa sola di contribuirvi.

Fosse questa la situazione italiana, i risultati delle recenti elezioni europee, sarebbero stati forse diversi. Ed invece essi sono stati caratterizzati soprattutto dallo scontro, a sinistra (tra il Pd ed i 5 Stelle), tra chi era più intransigente nei confronti di uno dei “peggiori governi della storia repubblicana”. Difficile allora distribuire patenti. Ma forse Walter Veltroni, la cui vocazione riformista non è mai stata in discussione, parlava a suocera perché nuora potesse intendere. Fosse così non potremmo che condividere.

Ma torniamo al merito. L’idea di un “rafforzamento simmetrico dei poteri di decisione del governo e di quelli di controllo del parlamento” appartiene alla teoria del “benaltrismo”. Esigenza giusta in teoria, ma storicamente improponibile nella realtà italiana di oggi. La Costituzione del 1948, sebbene frutto di un “compromesso alto” tra le principali forze politiche italiane (cattolici, liberali e social-comunisti), aveva un retroterra consolidato: l’avversione nei confronti del “mussolinismo”, allora, ma ancora oggi, non distinto, ma confuso, con il regime fascista.

Che Mussolini ne fosse il capo, è ovviamente, fuori discussione. Che tuttavia il suo regime andasse anche oltre, è certificato dalle analisi degli storici più avveduti. Valgano per tutti, gli scritti di Franco De Felice. La differenza non è di poco conto. Consiste nel fatto che il Duce non esitò ad utilizzare tutti gli strumenti di governo per consolidare un proprio potere personale. Una sorta di dittatura individuale rivolta contro tutti gli oppositori, compresi – ma forse soprattutto – le frange interne del suo partito che, vagheggiavano scelte politiche diverse o addirittura complottavano contro la sua persona. Si pensi solo alla tragica vicenda di Galeazzo Ciano.

L’antidoto dei Padri costituenti, contro il rischio che una simile situazione potesse in futuro ripresentarsi, fu l’idea di un “re travicello”. Di un presidente del Consiglio fortemente depotenziato, al punto da non poter nemmeno costringere alle dimissioni quel ministro che si fosse reso responsabile di gravi inadempienze rispetto alla linea politica che Egli stesso era chiamato a dirigere. Un paradosso evidente, destinato a tradursi in quell’instabilità politica che fu caratteristica di tutta la Prima Repubblica. Ed in parte degli ultimi anni della Seconda.

Allora, indebolire il governo non poteva che comportare una maggior forza del Parlamento in quel bilanciamento dei poteri che caratterizza il gioco democratico. A questa ragione, che appartiene alla fisica della politica, se ne sommò una seconda, legata agli equilibri geopolitici di quegli anni. La “guerra fredda” contribuì a plasmare, in modo altrettanto determinante, gli equilibri istituzionali italiani. Sarebbe stato ben più difficile sopire le latenti tensioni rivoluzionare, senza offrire al Pci la possibilità di incidere nella vita del Paese. Tensioni che rimasero comunque sotto pelle, come mostra la storia di Pietro Secchia, vice segretario del Partito, nonché responsabile della sua organizzazione, fino al 1955. Ma soprattutto capo del cosiddetto “parapartito”: il nucleo armato pronto ad intervenire.

Sono questi parametri che rendono irrisolvibile l’equazione descritta da Veltroni. Rafforzare entrambi, Governo e Parlamento, non è possibile. Ne consegue che occorre individuare un arbitro diverso per dirimere gli inevitabili contrasti, che sono il sale della democrazia. Ed allora non resta che ridare lo scettro al popolo, convocandolo, quando è necessario, in libere elezioni per il responso definitivo. Troppo semplice, per non dire semplicistico? Un’anomalia, rispetto all’esperienza storica delle democrazie europee?

Sarà pure così. Ma a monte di tutto ciò è una diversità ancora più grande. Nei quasi 80 di storia che ci dividono dal 1948, nessun Paese europeo fu caratterizzato da una debolezza così forte del suo esecutivo. Fatto salva forse la Quarta Repubblica francese, alla quale pose fine il generale De Gaulle, dopo la sventurata guerra d’Algeria. Storia che dovrebbe far riflettere: tanto più se quel lungo periodo lo si rapporta ai vent’anni del fascismo, che di quel modello ne rappresentò l’opposto. Ed allora più che stracciarsi le vesti, denunciando un presunto sbrego costituzionale, sarebbe opportuno riflettere sulla sostanza del problema. Per poi individuare le forme più opportune per risolverlo.

×

Iscriviti alla newsletter