La Cina usa la Guardia costiera come strumento di coercizione, anche esercitando law enforcement all’interno di aree di Mar Cinese che non sono di propria sovranità. Altro incidente con le Filippine
Navi cinesi e filippine si sono scontrate nel primo incidente dopo che la nuova legge sulla guardia costiera di Pechino è entrata in vigore. La collisione è avvenuta lunedì tra le acque tesissime del Mar Cinese, dove negli ultimi due anni sono aumentati sensibilmente gli screzi tra Cina e Filippine, anche perché il presidente Ferdinand Marcos Jr, eletto nel giugno 2022, ha spostato la traiettoria di politica estera pro-cinese del suo predecessore, Rodrigo Duterte, verso Washington.
La dichiarazione della Guardia costiera cinese afferma che una nave da rifornimento di Manila è “entrata illegalmente” nelle acque vicino a Second Thomas Shoal, provocando un incidente. Qui c’è l’aspetto determinante: le nuove regole della guardia costiera cinese, entrate in vigore sabato scorso, consentono di trattenere sospetti trasgressori fino a 60 giorni e considerano le trasgressioni come ingressi illegali.
Quindi significa che Pechino sta applicando regole di law enforcement in un territorio che secondo una sentenza di arbitrato del 2016 non è di propria sovranità. Ossia, la Cina che si fa portatrice di un modello di governance internazionale alternativo a quell’ordine basato sulle regole occidente-centrico e spezza per proprio interesse il diritto internazionale, non riconosce la sentenza, violando in questo caso anche le rivendicazioni delle altre nazioni affacciate sul bacino del Mar Cinese, applicando le proprie leggi in modo arbitrario e unilaterale.
Denominata Renai Jiao dalla Cina, la secca sotto il controllo di Manila in cui è avvenuto l’ultimo incidente è stata il punto focale di molteplici scontri in mare negli ultimi mesi. L’area rientra in quello che viene anche definito Mar delle Filippine Occidentale, parte del Mar Cinese Meridionale che Manila afferma come suo territorio marittimo, che consiste nel suo limite di sovranità delle 12 miglia nautiche, nella sua zona economica esclusiva (fascia da 200 miglia nautiche), nonché nel gruppo dell’isola di Kalayaan situato al di fuori della zona che include l’isola di Pag-Asa.
Questi tecnicismi servono a dare una parziale indicazione di quanto la situazione sia complessa a livello geografico e legale. Dunque complicatissima sul piano geopolitico, ossia il piano in cui confluiscono tutti gli aspetti tecnici per poi essere obliterati dalla narrazione strategica. La guardia costiera cinese è stata accusata di aver speronato navi da rifornimento filippine e di aver usato contro di loro idranti, a volte danneggiando la nave e ferendo persone a bordo.
Ed è questa la narrazione: Pechino rivendica il diritto di procedere con certe attività perché quelle acque sono parte del proprio territorio (rivendicato attraverso l’altrettanto narrativa “linea dei nove punti”, il cui perimetro è intriso di ideologia e revisionismo storico). Per questo porta avanti l’applicazione dei principi di law enforcement attraverso la Guardia Costiera. Nelle scorse settimana qualcosa del tutto simile è avvenuto attorno a Taiwan, con la polizia marittima cinese che si è esercitata in operazioni di rispetto della legge tra le acque dell’isola — considerata dalla narrazione del Partito/Stato una provincia ribelle da annettere al mainland.
Ma tutto questo produce derive potenzialmente incontrollabili. Secondo un sondaggio pubblicato dal South China Morning Post, il 73% degli intervistati filippini accetterebbe se il loro governo decidesse “azioni militari” contro le coercizioni cinesi. È il rischio di alzare il livello di stress, in un luogo in cui le pressioni di Pechino non sono questione di soft power, ma molto molto più pesanti. E qui il rischio è chiaramente l’escalation: basta pensare che Stati Uniti e Filippine hanno da poco implementato i principi contenuti nell’accordo di mutua difesa, e che Manila ha migliorato il livello di cooperazione militare con Tokyo e Canberra.