Da una parte Biden, mosso anche dalla necessità di rispondere alle richieste dei Dem che vogliono un cessate il fuoco. Dall’altra Netanyahu che rischia la fine del suo governo se accetta proposte osteggiate dai radicali. Ecco chi e cosa si muove attorno a Israele per il cessate il fuoco su Gaza
Israele ha confermato che il discorso di venerdì con cui il presidente statunitense, Joe Biden, ha delineato un percorso di de-conflicting ha descritto “in generale” la proposta israeliana di un accordo per il cessate il fuoco a Gaza. Il governo di Benjamin Netanyahu lo sta facendo in vario modo, sia formalmente — per esempio il consigliere diplomatico del primo ministro, in un’intervista al Sunday Time, lo ha definito “un accordo su cui abbiamo concordato” — sia informalmente, tramite spifferate anonime alla stampa. Tra queste, quelle in cui si sottolinea che accettare il percorso delineato (dettato?) dalla Casa Bianca, non significa che Israele non potrà — in qualsiasi momento — riprendere a combattere se ritiene che Hamas violi l’intesa.
Tali condizioni potrebbero includere il mancato rilascio del numero di ostaggi concordato, o se — in termini più aleatori — Israele avesse l’impressione che i negoziati della fase due dell’accordo siano infruttuosi e utilizzati da Hamas per guadagnare tempo. È stato Biden stesso a sottolineare certe possibilità, andando anche oltre, tutelando il diritto israeliano all’autodifesa. Però per Netanyahu le specificazioni sono parte determinante di una narrazione che non può vederlo accettare qualche genere di resa, o meglio non procedere fino in fondo alla tanto sbandierata — quanto di fatto impossibile — eliminazione di Hamas.
Per lui il problema è gestire le pressioni internazionali che chiedono da tutti i lati di fermare la fase di guerra a Gaza, scatenata dall’attacco mostruoso di Hamas il 7 ottobre scorso — dopo del quale Israele ha reagito in modo “sproporzionato sui civili”, per usare le parole del vice presidente del Consiglio Antonio Tajani.
I funzionari statunitensi hanno dichiarato di essere incoraggiati dal fatto che Netanyahu non abbia fatto marcia indietro sul discorso di Biden o non abbia negato che esso rifletta la proposta israeliana consegnata ad Hamas alcuni giorni fa, scrive il sempre informatissimo Barak Ravid. Ma non è chiaro quale spazio di manovra interna abbia Bibi.
La gestione del dossier è molto complicata perché c’è un bilanciamento altrettanto impossibile: portare le formazioni radicali e oltranziste, senza le quali Netanyahu non può governare, ad accettare qualcosa meno del piano di sterminio contro l’organizzazione palestinese. E infatti, i due ministri che rappresentano quelle fazioni estremiste, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, hanno già minacciato che un accordo significherà la caduta del governo — rilanciano per altro che non avevano mai sentito parlare della “proposta israeliana” citata da Biden (da quanto noto, la Casa Bianca aveva inviato il discorso all’ufficio di Netanyahu con due giorni di anticipo).
Potrebbe essere il leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid a fornire quella che ha definito una “rete di sicurezza” politica, se necessario, per far passare l’accordo. Ma questo passaggio significherebbe che il governo Netanyahu finisca sotto un commissariamento di fatto, dopo che altre figure dell’opposizione sono entrate nel gabinetto di guerra — anche sotto richieste esterne.
A proposito di pressioni esterne, gli Stati Uniti, l’Egitto e il Qatar hanno rilasciato sabato una dichiarazione congiunta che invita Hamas e Israele a finalizzare un accordo “che incarni i principi delineati dal presidente Biden”. “Questi principi — dicono — hanno riunito le richieste di tutte le parti in un accordo che serve molteplici interessi e che porterà un sollievo immediato sia alla popolazione di Gaza che soffre da tempo, sia agli ostaggi che soffrono da tempo e alle loro famiglie”.
La dichiarazione è anche frutto di un tour telefonico condotto dal segretario di Stato Antony Blinken, il quale ha parlato con i ministri degli Esteri di Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Turchia e Qatar. Il ministero degli Esteri emiratino ha poi rilasciato una dichiarazione separata che elogia il discorso di Biden e quello saudita ha dichiarato che il suo Paese sostiene qualsiasi proposta che ponga fine alla guerra — nota non secondaria, entrambi erano a Pechino per l’Arabs-China Forum, dove si è parlato anche della crisi e di Palestina. Anche il presidente francese, Emmanuel Macron, il ministro degli Esteri britannico, David Cameron, e l’Alto rappresentante europeo Joseph Borrell hanno rilasciato dichiarazioni di sostegno al discorso di Biden.
La Casa Bianca ha messo il suo enorme peso diplomatico sul cessate il fuoco, e — vista anche l’insostenibilità generale della guerra, che ha prodotto ben oltre trentamila morti, la gran parte dei quali civili — la linea dettata da Biden ha raccolto consenso internazionale. La ragione che ha mosso il presidente americano è legata tanto alla responsabilità da potenza globale nell’aiutare a gestire certi dossier, quanto a una necessità più personale. Parte del suo elettorato non sta infatti apprezzando la posizione, apparentemente troppo appiattita su Israele, tenuta dall’amministrazione democratica: e sono questioni con cui fare i conti in vista di Usa2024.