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Le partite, il racconto e gli arditi del calcio (e non solo). La riflessione di Cristiano

Sembra che la palestra del racconto del calcio non possa più essere un vettore popolare di rispetto nella passione, di ragionamento pur nella scelta del proprio campo. Magari quello della Nazionale. La riflessione di Riccardo Cristiano

Quando Albert Camus disse “tutto ciò che so della vita l’ho imparato dal calcio” non pensava certo alle telecronache o radiocronache delle partite. Pensava con ogni probabilità al difficile ma necessario equilibrio tra individuo e collettivo, tra ragionamento ed estro, tra attacco e difesa, e molto altro ancora. Non poteva considerare le novità introdotte dalla Tv-on-demand, una nuova conoscenza essenziale.

Ricordi che agli esordi, quando si comprava la partita della propria squadra del cuore, alcune emittenti offrivano la possibilità di sostituire la telecronaca ufficiale con il racconto in diretta effettuato da una radio dei propri colori. Un giornalista tifoso incitava i proprio beniamini con lo stile degli ultras, inveendo contro l’arbitro a ogni fallo fischiato contro i propri beniamini. Era una modalità efficace per chi pur restando a casa voleva vivere la partita come se fosse in curva.

Questo meccanismo non poteva essere immaginato per le partite della nazionale: siamo tutti italiani, difficile che qualcuno volesse sentire in italiano una cronaca inneggiante alla Croazia e alla gesta di Modric, per stare alla partita di ieri. Ma anche se intriso di italianità il telecronista, bravissimo, faceva pur sempre il telecronista, la partita restava quel che era, e con essa il suo racconto, seppur effettuato con adesione, quindi minore distacco. Molti ricorderanno il famoso gol di Tardelli ai mondiali di Spagna: il distacco non poteva esserci.

La voce del telecronista a stento tratteneva la contentezza, ma quel gol, il raddoppio contro la Germania dell’Ovest, restava dell’Italia, non “nostro”. Ho rivisto stamane la registrazione su youtube, il primo piano di Pertini. Non c’era esaltazione esasperata a raccontare quella partita, quel momento decisivo. Per sentir dire “siamo in vantaggio” bisogna avere pazienza, molta pazienza. E nella sintesi che ho ascoltato si sente solo una volta. Ma risentire l’annuncio di quel gol oggi trasmette un senso di compostezza che fa tenerezza. Il telecronista, seppur partecipe, racconta quel che vede, parla dell’emozione di Tardelli, non della nostra, della mia, della tua.

Gli anni sono passati, eravamo nel 1982, ma la differenza è notevole. Siamo davanti a due stili interpretati da grandi interpreti, bravissimi entrambi, ma comunque stili diversi. Ora, con questo “stil novo” che richiede di certo grande abilità, tutto ciò che dobbiamo imparare dalla telecronaca di una partita di calcio è che il racconto va sfumato, in primo piano c’è l’emozione, anzi, le emozioni. Non è facile farci vivere in poltrona come fossimo in curva bollente: è questo il motore che chi racconta deve innescare. Ed è uno stile comunicativo difficile che sembra facile, ma non lo è, e merita però di essere indagato un pochino di più.

Ho l’impressione che la forza del tifo sia percepita superiore a molte altre forze, e divenga fondamentale per aumentare la “fidelizzazione”. Come se ci dicessero: sei a casa tua, da solo, ma con noi sei in curva, con tantissimi altri cuori palpitanti come il tuo. Tutto sembra una tragedia di Schiller. Questa modalità di coinvolgimento fonda uno stile di racconto nel quale tutto viene vissuto come si vive sugli spalti caldi, dove ogni momento è quello dell’ultima spiaggia: non è diventato così per la politica, la cronaca, la politica internazionale?

Il distacco non coinvolge, neanche se emotivamente partecipato. Ed è un po’ come se ci tirassero dentro un’esperienza nella quale sentiamo che Navigare necesse est, vivere non necesse: si dice che queste parole le pronunciò Pompeo per incitare i soldati che davanti alla tempesta esitavano a prendere il largo per portare il grano a Roma: l’Urbe ne aveva un tale bisogno che anche il sopravvivere passava in secondo piano. Poi con D’Annunzio sono diventate simbolo della vita eroica, dell’arditismo.

Se guardiamo un talk-show, modello vincente di informazione televisiva, si ha l’impressione, che con enorme maestria e qualità psicologica, per ogni campo umano venga scelto un rappresentante ardito, eroico: la casalinga apaticamente estremista, il giovane disincantato in modo estremista, l’intellettuale ancora gagliardo e ancor più estremista: soltanto gli eroi dell’uno o dell’altro campo (quale che sia l’argomento) hanno diritto di parola. La pace è insulto ai feroci “bellicisti”, l’intervento armato è insulto ai proni “pacifisti”. Può avere diritto di cittadinanza il racconto?

Così mi sembra che la palestra del racconto del calcio non possa più essere un vettore popolare di rispetto nella passione, di ragionamento pur nella scelta del proprio campo (magari la Nazionale): no… Non so quale fosse l’indice di gradimento del calcio-on-demand con il commento delle emittenti legati ai singoli club, sarebbe importante andare a vedere se funzionò. Ma, a mio avviso, quello stile ha dimostrato la sua forza. Siamo a mio avviso al cospetto dell’ultima lezione che Camus avrebbe potuto apprendere dal calcio.

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