Grazie alla sua popolarità, Modi sta ridisegnando l’intera India basandosi su politiche fortemente identitarie, dove la matrice religiosa è elemento sostanziale. Pubblichiamo un estratto tratto dal volume “Rompere l’assedio”, di Roberto Arditti, edito da Paesi edizioni
A circa 700 km da New Delhi, nello Stato dell’Uttar Pradesh (letteralmente «provincia del nord», è il quinto Stato per estensione dell’India ma il primo per numero di abitanti, 250 milioni, che ne fa l’amministrazione locale più popolosa al mondo), c’è un colore a primeggiare su tutti quel giorno: l’arancione.
Tinta pastello considerata simbolo di coraggio e sacrificio, lo stesso arancione presente sulla bandiera indiana viene ripreso negli abiti delle decine migliaia di persone presenti all’inaugurazione del nuovo tempio di Ayodhya, costato 240 milioni di dollari e interamente pagato dal governo federale.
Ayodhya è una delle sette città sacre dell’India, tanto per gli induisti che per i buddisti (si tramanda la predicazione sul posto del Buddha per ben sette anni) ed è l’antica capitale del regno di Kosala e poi di quello di Rama, l’eroe del Rmyana, uno dei più importanti poemi epici della tradizione indiana (dalla Treccani: «Rama è il guerriero forte e pio, nel quale la forza del braccio e l’ardimento in battaglia non vanno disgiunti da una profonda religiosità e dalla perfetta osservanza della legge morale. È ritenuto la settima incarnazione del dio Visnu»).
E proprio a Rama è dedicato il nuovo tempio, Ram Mandir, volutamente imponente (50 metri di altezza) ma soprattutto decisamente simbolico di una stagione identitaria e nazionalista che è solo all’inizio, ma che ha tutte le caratteristiche per diventare lunga e gravida di conseguenze: ora capiremo perché.
A «tagliare il nastro» c’è il primo ministro Narendra Modi, che accoglie i fedeli esclamando: «Finalmente il Dio Ram è tornato a casa». L’evento ha toni e liturgie di carattere spirituale, ma è a tutti gli effetti un gigantesco evento politico, anzi è l’apertura ufficiale della campagna elettorale 2024, che porta ai seggi nell’arco di sei settimane 900 milioni di persone.
Per comprendere fino in fondo l’importanza di questo avvenimento, è bene tornare indietro di qualche anno e procedere in ordine cronologico. Già, perché questo tempio non nasce a caso: non solo nel tempo (elettorale, innanzitutto) ma nemmeno nello spazio, perché quello è un luogo denso di significato, per alcuni assai tragico.
Siamo al 6 dicembre 1992 e il clima religioso tra induisti e musulmani ribolle per ragioni varie che si sono acuite nel tempo, figlie di una crescente ondata identitaria che è ancora poco visibile ma che da lì a pochi anni investirà il mondo intero.
Quel giorno una folla inferocita (non è un’espressione di rito, bensì la cruda realtà) assalta e distrugge Babri Masjid, cioè la moschea di Ayodhya, sorta nel XVI secolo al tempo dell’impero Moghul (1528-1857, che arrivò a rappresentare quasi un quarto del Pil mondiale nel suo momento di massimo splendore, vale a dire il XVII secolo).
L’assalto è legato alla diffusa convinzione popolare secondo la quale la moschea «usurpa» il sito di Ram Janmabhoomi, leggendario luogo di nascita proprio di Rama.Viene promosso dal Bharatya Janata Party (Bjp), movimento politico allora all’opposizione ma oggi al governo, il cui leader attuale è proprio il premier Modi.
La moschea viene letteralmente rasa al suolo e nelle manifestazioni di protesta in giro per l’India muoiono oltre 2 mila persone: gli scontri fra induisti e musulmani si fanno drammatici, in qualche modo ponendo fine all’India disegnata dal Pandit Jawaharlal Nehru, erede spirituale di Ghandi.
Dal 1992 si apre una lunga controversia, che finisce anche con una sentenza della Corte Suprema che assolve i leader del Bjp, mentre le autorità consentono la costruzione di una nuova moschea non lontana dall’originale. Si tratta di uno degli episodi più rilevanti (e violenti) nella storica disputa tra induisti e islamici in India. Dal 1992 lì restano solo delle rovine, accompagnate dall’alternarsi di sentenze varie fino a quella appena citata, che nel 2019 approva la costruzione di un tempio induista. E così iniziano i lavori, sapientemente giunti a compimento nell’anno in cui Modi ottiene un nuovo mandato da capo del governo.
Il 22 gennaio 2024 il tempio viene inaugurato e, per essere degno della cerimonia, il premier Modi si nutre di sole noci di cocco per una settimana, dormendo su una stuoia a terra. Nel corso dell’evento, con le reti televisive indiane che organizzano dirette che durano ore e ore (ne esiste una versione su Youtube da 7 ore, 41 minuti e 40 secondi, che ha avuto oltre 1,7 milioni di visualizzazioni), il premier indossa il tradizionale kurti al ginocchio, comportandosi come una via di mezzo tra capo politico e leader spirituale. Anzi, se vogliamo dirla tutta, le movenze sono decisamente più di questo secondo tipo, così come l’intero impianto narrativo non tanto dell’evento in quanto tale, ma della partecipazione del medesimo Modi.
Potrei azzardare un’analisi che mi sento di condividere qui: il Modi del 22 gennaio 2024 è il garante politico di una nuova spiritualità indù finalmente orgogliosa di essere tale, pronto a rivendicare la sua forza (e non la sua resilienza) innanzitutto con le due grandi religioni monoteiste che, in momenti diversi, hanno occupato l’India.
Siccome però i cristiani in India sono molto meno numerosi (27 milioni) dei musulmani (180 milioni), la tensione è soprattutto verso questi ultimi, che rappresentano la maggioranza della popolazione nei territori federati di Jammu e Kashmir, Ladakh e Isole Laccadive e sono presenti con forti minoranze anche in altre zone (25-30% di musulmani sciiti).
Non mancano forti tensioni anche verso i cristiani, più soggetti ad attacchi e discriminazioni rispetto al passato, al punto che il 19 febbraio 2024 oltre cento tra chiese e comunità cristiane si sono riunite a Delhi per denunciare il nuovo peggioramento del clima di ostilità e odio. In particolare, è fortissima la tensione nello Stato centrale di Chhattisgarh, dove estremisti indù Advasi attaccano spesso cristiani della stessa comunità pretendendone la conversione.
La cerimonia è spettacolare (consiglio di andare a guardare le immagini): fiori di loto, olio, zafferano e, appunto, l’arancione, colore identitario e dominante.
Che questa storia sia di fondamentale importanza è chiaro a tutti, ma sul perché è giusto fare alcune precisazioni. Nello specifico tre. La prima riguarda un dato, oggettivo, che ci dovrebbe far svegliare ogni mattina desiderosi di leggere o ascoltare la rassegna stampa dell’India, insieme a quella del nostro Paese o della nostra parte di mondo: l’India è la nazione più popolosa del pianeta. La demografia indiana è qualcosa di strepitoso, che andrebbe saputa a memoria come le tabelline. A oggi conta 1,44 miliardi di persone con un aumento di 13 milioni in un solo anno (2023). Per dare dei riferimenti: nel 2012 gli abitanti erano 1,27 miliardi, mentre si stima che nel 2050 ce ne saranno 1,67. In questi ultimi anni, l’India è riuscita addirittura a superare la Cina (con una popolazione pari a 1,42 miliardi e in calo per il secondo anno consecutivo).
L’età mediana del Paese è di 28,4 anni, enormemente inferiore a quella italiana (48,4) e 10 punti meno di quella dello stesso Dragone (39,5). Il tasso di fertilità è in leggerissimo calo ma ancora alto (2,1), mentre la Cina viaggia ormai a ritmi occidentali (1,21). Ma qual è la distribuzione religiosa di questi 1,44 miliardi? Ed è qui che arriviamo al secondo punto.
Se, come abbiamo visto all’inizio del capitolo, l’Europa sta diventando sempre più laica, ecco che questa parola in India è pressoché sconosciuta. Chiariamoci, il Secolarismo semplificando, la divisione inequivocabile tra Stato e Religione è parte integrante della Costituzione indiana da anni, ma ciò non significa che le persone non si identifichino in uno o nell’altro credo. Laggiù essere atei o agnostici non è un’opzione.
Fatta questa premessa, dunque, è bene guardare alle percentuali. Perché circa l’80% degli indiani è induista, mentre «solo» il 14% di fede islamica, mentre il 2% sono cristiani. Già, «solo» perché, calcolatrice alla mano, il 14% di 1,44 miliardi è quasi quattro volte l’intera popolazione italiana. E a ciò bisogna aggiungere che la quota di musulmani nel Paese è fortemente in crescita, a ritmi ben più serrati degli induisti: dal 1951 al 2011 la percentuale di indù è passata da 84,1 a 79,8, mentre quella degli islamici da 9,8 a 14,2.
Ed è da qui, infine, che arriviamo al terzo ed ultimo punto: la politica nazionalista di Modi.
Dal 2014 (anno in cui è salito al potere) a oggi, il primo ministro indiano dedica molte delle sue energie a dare un’impronta fortemente religiosa (leggi induista) al Paese. Leader del partito nazionalista indù Bjp, nel 2019 Modi è stato rieletto per il suo secondo mandato ottenendo ben 303 seggi (erano 271 nel 2014) su un totale dell’intero parlamento indiano di 545.
Grazie, dunque, alla sua popolarità sta ridisegnando l’intera India basandosi su politiche fortemente identitarie, dove la matrice religiosa è elemento sostanziale. Basti pensare che durante il G20 del 9 e 10 settembre 2023 a New Delhi, il padrone di casa Narendra Modi recava davanti a sé il cartellino con il nome dello Stato con una parola sorprendente: Bahrat, «la terra che sostenta» in sanscrito, ovvero la versione hindi della nazione.
Ecco che questi tre elementi ci danno modo di fare almeno due riflessioni che dovremmo sempre tenere a mente.
La prima è che, per i motivi appena citati, non possiamo permetterci di guardare a ciò che succede in India come a una (più o meno) simpatica storiella di un altro mondo così diverso e lontano tale da non darci importanza. A questo segue poi che l’integrazione tra popoli, culture e religioni è una cosa estremamente seria, verso la quale il mondo non marcia con comunanza d’intenti né velocità di crociera. Anzi, il fenomeno che si può ormai osservare in tutti i continenti è proprio di un ritorno identitario alle tradizioni, forse figlio di un certo smarrimento collettivo di fronte all’incedere della globalizzazione. Ritorno che però è anche propiziato da molti astuti capi politici, che ne fanno strumento potente d’influenza sui popoli, sia nella versione democratica che in quella autoritaria.
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Mentre dalla nostra parte del mondo vengono rimossi i crocifissi nelle scuole (e dai manifesti delle Olimpiadi), nel Paese più popoloso della Terra non si fanno sconti, tantomeno religiosi, di alcun tipo. Semmai ci si pente di quelli fatti in passato, cercando una rivincita che sempre più spesso assume forme ostili e violente. L’importante, anche qui, è innanzitutto rendersene conto. Condizione che allo stato non mi pare consolidata.