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Perché Pechino vuole il Medio Oriente

Interessi e necessità, sia pratici che sul piano della narrazione strategica, obbligano la Cina a essere impegnata in Medio Oriente. Complessità ed equilibrismo portano Pechino a un impegno difficile, mentre Washington resta un riferimento

Quello che restituisce il Forum sulla Cooperazione tra Cina e Paesi arabi (Casr), che Pechino ha ospitato nei giorni scorsi, è chiaro: la Cina vuole tenere il Medio Oriente all’interno di una sfera di influenza narrativa che sta costruendo in chiave anti-occidentale (maggiormente in chiave anti-americana), è da qui sfruttarne interessi più concreti. Ma il lavoro cinese è complesso.

Durante il vertice, l’ospite, il leader cinese Xi Jinping, ha in più occasioni sottolineato la necessità di rafforzare i legami con i Paesi della regione. Rapporti che toccano molti settori, e in particolare quello paradigmatico dell’energia. Negli ultimi 20 anni è cresciuta la dipendenza cinese dalle importazioni di greggio – in particolare, chiaramente, dal Medio Oriente. Importazioni che oggi rivaleggiano con quelle dell’Ue, passando da meno di 2 a più di 10 milioni di barili al giorno: nello stesso lasso di tempo gli Stati Uniti hanno percorso la strada opposta, scendendo da 12 a 1,4 milioni di barili al giorno di importazioni nette, spiega Ispi.

Qui sta parte del racconto sul riequilibrio di potere nella regione. Mentre Washington diminuendo il suo principale interesse nella regione ha avviato un parziale disimpegno (anche perché per molto tempo quell’impegno è stato sinonimo di operazioni militari nell’ambito dell’infinita global war on terrorism, spesso criticata a livello bipartisan), Pechino aumentando le sue dipendenze ha dovuto aumentare anche l’impegno.

Ma nel frattempo la regione è cambiata. Sebbene alcune delle faglie culturali e geopolitiche permangono, il nuovo Medio Oriente è in cerca di stabilità e soprattutto di innovazione. Ed è qui che Pechino aumenta il suo coinvolgimento, facendo di necessità virtù. È infatti nei grandi progetti destinati a modificare l’infrastruttura sociale soprattutto dei Paesi del Golfo, le cosiddette “Vision” che segnano il nuovo corso del potere di emirati e regni, che la Cina trova spazi.

Nella necessità di essere parte del destino dei suoi grandi fornitori energetici — e consapevole che prima che la Repubblica popolare compia la transizione per diventare un “electro state” occorre aumentare la fornitura di idrocarburi — Xi Jinping spinge per investimenti delle grandi aziende tecnologiche cinesi nella regione. La creazione di mega-struttura per cloud, quantum computing, intelligenza artificiale, gaming e telecomunicazioni in genere è quello che Pechino (le cui aziende sono velatamente private, ma spesso sottoposte a imprimatur del Partito/Stato) mette sul piatto.

E il Golfo accetta l’offerta. La regione è lanciata verso uno sviluppo sostenuto dall’enorme crescita economica, legata anche agli extra guadagni incassati come conseguenza dello scombussolamento del mercato energetico prodotto dall’invasione su larga scala russa dell’Ucraina. È in quell’occasione che Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, o il Qatar si sono dimostrati non solo fornitori, ma seri interlocutori internazionali.

Disponibili a sopperire le problematiche, innanzitutto degli europei (che hanno scoperto l’errore dell’eccessiva esposizione che crea dipendenza), hanno anche sfruttato l’occasione per lavorare su come accrescere il proprio standing internazionale. Usando spazi geopolitici, e mossi dall’intuito di una nuova generazione di leader che stanno plasmando i nuovi patti sociali regionali, hanno operato in campo diplomatico e geoeconomico dimostrando di aver sostanzialmente abbandonato la linea guerresca di un lustro fa, e di sposare una posizione multi-allineata.

Percependo l’andamento multi polare delle attuali relazioni internazionali, il Golfo è diventato esso stesso un polo di attrazione globale. Ragion per cui diventa anche difficile  pensare che gli Stati Uniti — e in generale l’Occidente — possano competere con la Cina senza quei partner mediorientali. Giulia Pompili nella sua newsletter “Katane” fotografa perfettamente il perché: Xi mira a “rafforzare la credibilità della Repubblica popolare cinese come perno di una diplomazia multipolare alternativa a quella a guida americana”.

Ed è anche davanti a questa consapevolezza che Washington preme per accelerare il processo per il cosiddetto “mega-deal” con l’Arabia Saudita, perché all’interno di esso gli Stati Uniti potranno inserire non solo la sfera securitaria — segmento su cui gli Usa hanno per ora un vantaggio incolmabile su una più disimpegnata Cina — ma anche questioni che riguardano l’energia nucleare e le cutting hedge technology. Ossia tutto ciò che Riad cerca adesso e su cui flirta con Pechino.

C’è anche un’altra consapevolezza: l’ostilità degli hard-liner iraniani rimane un problema per i grandi player sunniti. Nonostante sia stata la Cina a intestarsi il ruolo di mediatore finale tra Teheran e Riad (sebbene la riapertura dei rapporti avvenuta lo scorso anno sia stata frutto di un percorso durato molto tempo e condotto da iracheni e omaniti anche in coordinamento indiretto con gli americani). Pechino è infatti eccessivamente esposta con la Repubblica islamica, parte dell’asse che insieme a Russia e Corea del Nord guida la narrazione dei revisionisti — coloro che intendono rimodellare a proprio vantaggio una governance internazionale (che anche altri Paesi percepiscono) troppo occidente-centrica.

E però, la Repubblica popolare ne è consapevole di tale peso, e manda segnali. Alla riunione con i ministri degli Esteri dei Paesi arabi di Pechino ospitata a latere del Casr, il capo della diplomazia del Partito/Stati, il ministro Wang Yi, ha chiesto di “porre fine alle vessazioni contro le navi civili e di garantire la sicurezza delle vie d’acqua nel Mar Rosso”. Ossia ha chiesto agli yemeniti Houthi che nell’Indo Mediterraneo destabilizzano la geoeconomia globale con armi iraniane, di fermarsi.

E non importa se questa richiesta non è seguita da azioni concrete, perché come la Cina anche i Paesi del Golfo hanno preferito di non esporre pubblicamente gli impegni per la sicurezza collettiva presi nell’ambito di attività come la missione europea “Aspides” e quella a guida statunitense “Prosperity Guardian”— e in generale di essere disinvolti. Ciò che conta è il messaggio che accompagna tanto un impegno diplomatico pubblico, quanto una comprensione di come viene percepita la crisi e le sue dinamiche dai Paesi del Golfo.

La regione del Golfo ha sofferto le intemperie degli Houthi, che l’Iran ha usato (e in parte usa) anche come proxy contro Riad e Abu Dhabi, che però adesso hanno trovato una stabilità pragmatica. Gli yemeniti non li attaccano più perché hanno ottenuto un posto al tavolo di spartizione che seguirà la pacificazione della guerra civile in Yemen — prodotta dagli Houthi, fomentata dall’Iran, combattuta dai Paesi sunniti della regione.

Qui si inserisce la Cina, che chiede la fine della guerra nella Striscia di Gaza, perché essa ha prodotto anche le ondate di attacchi ai cargo internazionali degli Houthi (che dicono di agri per rappresaglia contro Israele), e chiede anche agli yemeniti di fermarsi tout court.

E questo genere di messaggio che arriva fino a Teheran diventa ancora più forte nella vicenda delle isole Abu Musa e Grande e Piccola Tunbs, affioramenti contesi tra Emirati e Iran su cui — mentre l’emiratino Mohammed bin Zayed era a Pechino — il ministero degli Esteri cinese ha dato ragione ad Abu Dhabi, sollevando l’ira di Teheran. Testimonianza che il rapporto con l’Iran è più di utilità (narrativa) che di interesse. E c’è anche questo nel grande, delicato gioco mediorientale di Xi.

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