Con la legge Calderoli, si rischia di spaccare il Paese e penalizzare il Mezzogiorno. Mentre con la riforma istituzionale si indebolisce il Presidente della Repubblica. Conversazione con il politologo, Sebastiano Maffettone
Da una parte dell’Aula il tricolore, dall’altra le bandiere dei diversi territori. Vessilli che richiamano alle signorie, quando i principi spadroneggiavano nei loro contadi. È la rappresentazione della Camera dei deputati all’esito del via libera definitivo alla legge sull’Autonomia differenziata, bandiera politica della Lega da sempre. Le opposizioni insorgono. Ed erano insorte anche il giorno prima in piazza Santi Apostoli. Anche sul premierato, accolto dal giubilo del governo, le tensioni sono altissime. Addirittura il leader di Italia Viva, Matteo Renzi lancia la proposta di un referendum abrogativo con l’Autonomia. D’altra parte, come osserva su Formiche.net Sebastiano Maffettone, professore di Filosofia politica, direttore del Center for ethics and global politics e ideatore dell’Osservatorio Ethos della Luiss, “si tratta di due riforme profondamente ideologiche, che guardano più all’interesse della parte che le ha promosse piuttosto che al Paese intero”.
Il governo incassa due vittorie sul piano politico. Da lei, arriva una bocciatura su tutta la linea.
Forse perché fatico a immaginare l’interesse del governo diverso da quello del Paese. Credo sia sbagliato portare avanti, pur capendone le ragioni politiche, riforme che rischiano di danneggiare l’architettura istituzionale in un caso e di creare ancor più disparità delle attuali nel secondo caso.
Andiamo con ordine: Autonomia differenziata. Cosa non la convince?
È una legge che lede nel profondo, così come è strutturata, le prerogative dei cittadini di avere accesso a pari condizioni. In sostanza, avvantaggia le regioni più ricche e penalizza profondamente il Mezzogiorno. Senza contare che per come è strutturato il nostro sistema di poteri sui territori, le Regioni dispongono di moltissime risorse avendo responsabilità limitate. Viceversa, i Comuni sono allo stremo e gli amministratori – in particolare nelle piccole realtà – hanno grossissimi problemi dal punto di vista finanziario. Per cui, se proprio si dovevano dirottare poteri e risorse, lo si poteva fare sugli enti locali.
A prima vista, anche la sua potrebbe apparire come una critica più ideologica che di sostanza politica.
In realtà no, perché sottende a un principio. In un momento storico come questo, c’è bisogno di più coesione, di più unità. Occorre avere uno sguardo non solo sull’intera nazione, ma sull’Europa. Una norma come questa, che invece fraziona ulteriormente il territorio aumentandone le disparità, viaggia nella direzione completamente opposta.
Del premierato, invece, quali sono gli aspetti che secondo lei sono più critici?
Francamente non vedo l’utilità di rafforzare i poteri del primo ministro a detrimento di quelli del Presidente della Repubblica, in un Paese nel quale è quest’ultimo è l’unico ad avere consenso e fiducia unanimi. Mi sembra che sia, anche questa, una legge voluta per dare corso alle ragioni di parte piuttosto che al bene del Paese inteso nel suo complesso.
Parlando di Europa, che cosa prevede all’esito delle trattative sulle nomine e come legge la posizione italiana?
La maggioranza rimarrà sostanzialmente quella precedente. I giochi sulle nomine saranno sempre decisi dall’asse franco-tedesco ed è il motivo per il quale il premier Meloni non si deve contrapporre e alzare il livello del conflitto.
E dunque quale dovrebbe essere la postura?
Giocare la carta della centralità italiana nell’area mediterranea. In questa prospettiva, il nostro Paese potrebbe essere davvero strategico: una cerniera tra l’Europa e una parte del Sud del mondo. Oltre l’Occidente.