Gli Stati Uniti hanno deciso di bloccare quasi completamente le importazioni del metallo pesante dalla Federazione Russa, principale produttrice mondiale. Che però non avrà difficoltà a ridisegnare la sua strategia di esportazione
Il confronto tra Russia e Stati Uniti si è recentemente allargato ad una nuova dimensione, quella dell’Uranio. Ad avviare questa nuova dinamica è stata una legge, firmata il 14 maggio dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che prevede il divieto quasi totale di importazione dell’uranio russo da parte di operatori statunitensi (anche se ad alcuni di essi è stato garantito il diritto di continuare a importare questo materiale fino al 2028). La ratio dietro questa scelta sarebbe la volontà di picconare il mercato russo dell’Uranio; tuttavia, gli effetti potrebbero essere più limitati di quelli desiderati. E c’è anzi il rischio che questo provvedimento vada a colpire maggiormente gli interessi di Washington rispetto a quelli di Mosca.
I dati di UnComtrade (database sul commercio mondiale gestito dall’ufficio statistico delle Nazioni Unite) indicano una crescita nelle esportazioni di uranio da parte della Russia: nel 2023 la Federazione avrebbe esportato quantità del metallo pesante per un valore totale di circa 2,7 miliardi di dollari, segnando un aumento del 30% circa rispetto ai 2 miliardi di dollari di esportazioni globali registrati nel 2022, aumento che diventa superiore al 100% sei paragonato rispetto agli 1,29 miliardi di dollari del 2022. In quest’ultimo anno, più di novanta reattori commerciali statunitensi sarebbero stati alimentati da uranio importato dalla Russia, e la tendenza era quella di un incremento di questa cifra. D’altronde, Rosatom (l’azienda pubblica russa che si occupa di nucleare) gode di una posizione dominante in questo campo. Il blocco delle importazioni di uranio dalla Russia rischia di impattare dunque non solo nel settore nucleare statunitense, ma anche in quello delle industrie che sfruttano le energie prodotte da esso.
“Per ridurre la dipendenza dalla Russia, è necessaria una struttura accoppiata in cui si investa in nuove capacità di conversione e arricchimento e si proteggano questi investimenti con alcune restrizioni alle importazioni”, ha dichiarato l’assistant secretary (dimissionaria) presso il Dipartimento dell’energia Kathryn Huff.
La situazione per la Russia è meno complessa. Nonostante questo divieto la privi di un importante importatore di uranio, Mosca è in grado di riadattare il proprio mercato delle esportazioni. Sergey Sukhankin individua alcune possibili strategie finalizzate a questo risultato. A partire dall’aumento delle esportazioni verso le cosiddette “nazioni amiche” e i Paesi del Sud globale, dove il Cremlino sta già portando avanti una campagna di nuclear diplomacy, come parte di una trasversale campagna di penetrazione in questo teatro fondamentale. Sempre in quest’ottica, la Russia potrebbe costruire partenariati con i Paesi produttori di uranio del Sud globale come Namibia e Tanzania. E sforzi in questo senso sono già stati fatti: Rosatom ha annunciato che nel 2029 intende avviare la commercializzazione dell’uranio in Namibia, che secondo quanto riferito detiene il 7% delle riserve mondiali di tale risorsa; in Tanzania invece Rosatom sta lavorando al progetto Mkuju River nel giacimento di Nyota, che contiene centocinquantadue milioni di tonnellate di otossido di triuranio, un composto dell’uranio, e una capacità produttiva annuale di tremila tonnellate.
Inoltre, la Russia potrebbe rispondere alla decisione unilaterale statunitense cercando di minare le rimanenti fonti di rifornimento dei Paesi occidentali. Nelle ultime ore si è diffusa la notizia su come il Cremlino sia interessato ad acquisire il controllo sui giacimenti di Uranio del Niger, che in seguito al colpo di Stato della scorsa estate e all’arrivo al potere della giunta militare si è avvicinato sempre di più a Mosca. Attualmente i giacimenti nigerini sono sotto il controllo di una società francese, la Orano Sa, ma l’incertezza del diritto che caratterizza il Paese africano dopo il golpe del 2023 rende quest’ipotesi tutt’altro che improbabile.