Skip to main content

Senza fissa dimora, come il mercato immobiliare può cambiare la nostra cultura

Nel nostro Paese ci si limita ad assistere agli eventi, lasciando che le cose seguano il proprio corso, e aspettando che, giunta l’emergenza, si possa trovare una soluzione alternativa. E questo vale anche per il mattone. Il commento di Stefano Monti

Non molto tempo fa, la Fabi, la Federazione autonoma bancari italiani, commentando i risultati del mercato immobiliare del 2023 nel nostro Paese, ha sottolineato quanto gli andamenti del mercato fossero collegati agli andamenti dei tassi di interesse. Si tratta di una connessione molto lineare: in Italia una grande quota di cittadini tende ad acquistare la casa in cui intende vivere, la maggior parte dei cittadini non ha a disposizione liquidità tali da poter saldare l’acquisto in un’unica soluzione; per questo motivo si rivolge al settore del credito accendendo un mutuo, il tasso di interessi incide sul mutuo rendendolo più caro; l’incremento dei prezzi tende a ridurre la domanda.

In effetti, un calo c’è stato: nei comuni capoluogo, gli acquisti del 2023 hanno avuto un calo di più del 10% rispetto all’anno precedente. A distanza di tre mesi, l’edizione del rapporto Osservatorio del Mercato Immobiliare che presentava confronti tra i primi 6 mesi del 2024 e quelli dell’anno precedente, ha indicato un ulteriore calo delle compravendite: -7,2% rispetto ai dati 2023. Ma non finisce qui: come riportato da Pietro Saccò sull’Avvenire, gli effetti del recente abbassamento dei tassi da parte della Bce sono già stati in larga parte scontati dal settore del credito, e questo significa, in soldoni, che non ci si aspetta grandi ripartenze del settore.

Parallelamente, soprattutto nelle città, l’andamento degli affitti è fortemente influenzato dalle dimensioni del mercato turistico, registrando un incremento dei prezzi e una riduzione degli immobili disponibili per gli affitti domestici. Lo scenario che è emerge, in altri termini, racconta di un’Italia che ha dei prerequisiti ben diversi da quelli che per decenni hanno identificato nella “casa di proprietà” un elemento immancabile nella vita delle persone. Scenario che, in un quadro più ampio, pare tutt’altro che legato alla sola contingenza.

Astraendo dalle cifre, infatti, è innegabile che nel mondo si stia vivendo un processo di urbanizzazione. Così come è innegabile che gli stili di vita urbani stiano attirando sempre più persone. Ancora, è innegabile che la direzione di incremento del tasso dei laureati porti le persone in primo luogo a frequentare le università (che in genere si trovano in città di medio-grandi dimensioni) e che successivamente porti i neolaureati a cercare impiego in un contesto che garantisca loro una valida qualità della vita, e un valido potere d’acquisto.

Ed è chiaro che tutti questi fattori, di cui l’analisi congiunturale appare essere nient’altro che il caso specifico dei macro-fattori di medio-lungo periodo citati, disegnino un processo in corso che nella sua massima espressione punta ad un cambio epocale della nostra cultura. Un passaggio questo che impone di spostare la riflessione ad un diverso ordine di grandezza: non più il rapporto tra cittadini e mercato immobiliare, ma tra cittadini e territorio. Il punto, in sostanza, è questo: se per le nuove generazioni sarà normale essere in affitto, e meno normale acquistare casa, i loro figli avranno, nei rapporti con il proprio territorio, un numero di vincoli ancora minore di quanto ne abbiano i ragazzi di oggi.

Chiaro, non scompariranno i proprietari, perché se c’è qualcuno che vende c’è anche qualcuno che compra. Ma se i tendenziali non verranno ribaltati, non è impossibile ipotizzare uno scenario in cui le persone tendono a mantenere la proprietà della “casa in campagna” (che avrebbe in ogni caso un basso valore immobiliare), e restare in affitto nella propria prima casa, così da essere più adatto ad un mercato del lavoro che si prospetta essere sempre meno circoscritto e sempre più globale. In un Paese dinamico, probabilmente questo scenario sarebbe senza dubbio uno stimolo: se i territori minori non possono competere direttamente con le città su alcune dimensioni, ce ne sono altre su cui potrebbero decisamente puntare.

Nel nostro Paese, invece, ci si limita ad assistere agli eventi, lasciando che le cose seguano il proprio corso, e aspettando che, giunta l’emergenza, si possa trovare una soluzione alternativa. Quella adottata dal nostro Paese è senza dubbio una strategia saggia, che è propria di chi ha una lunga storia e sa bene che l’Italia non morirà, e che “tanto, alla fine, una soluzione si trova”, ma lo è soltanto se la si guarda al futuro. Meglio detto: se il problema che si intende risolvere è esclusivamente quello futuro, allora attendere che il futuro arrivi per trovare soluzioni contingenti può essere in ogni caso una scelta valida. Il problema, però, è invece fortemente legato al nostro presente: perché è quello che oggi si fa per anticipare il futuro che ci qualifica, come esseri umani e come Paese.

E non fare nulla, in attesa che il peggio arrivi, per quanto saggio, è sicuramente poco stimolante. Perché non inventare nuove strade? Perché non sperimentare azioni che siano volte a favorire nuovi stili di vita? Perché non sviluppare una strategia che consolidi i rapporti tra territorio e persone, proprio in vista della sempre minor presenza di vincoli che manterranno quelle persone nelle loro aree di origine? Perché non sedimentare una cultura proprio laddove si crede che la cultura stia scomparendo? Perché non adottare forme capillari di diffusione della cultura per far sì che anche chi vive lontano dalla grande città non si senta obbligato a scegliere?

La risposta che di solito si tende a fornire è una risposta che potrebbe suonare solida e incontrovertibile: per le dimensioni di sostenibilità economica. Indubbio. Ma la sostenibilità economica varia molto in funzione del tempo di riferimento. Siamo sicuri che ciò che sia economicamente insostenibile nei 10 anni che in genere vengono presi in considerazione non possa divenirlo in 50? Siamo sicuri che il costo di un museo in un piccolo comune sia davvero più elevato dei costi di sovraffollamento urbano e del depauperamento di tutta “l’ossatura” che per secoli è stata la parte più vissuta del nostro Paese?

×

Iscriviti alla newsletter