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Il Sudan rischia di diventare peggio della Somalia. Warning per il Piano Mattei

Un massacro riaccende i riflettori sul conflitto interno in Sudan, dove la situazione rischia di scivolare verso un baratro incontrollabile e produrre una nuova, enorme crisi umanitaria mentre le potenze (come la Russia) muovono i loro interessi. Per l’Italia, la crisi è un elemento da attenzionare anche per gli sviluppi del Piano Mattei

La crisi militare e umanitaria in Sudan rischia di far precipitare il Paese in una spirale incontrollabile dove gli effetti sui civili si moltiplicano sulla situazione geopolitica. Mentre si consuma quello che viene già definito un “genocidio” (in larga parte ignorato), attorno alla crisi armata, che da oltre un anno anno attanaglia il Paese, potenze come la Russia (che da tempo sogna di piazzare sulle coste sudanesi una base militare) e le nazioni del Golfo muovono i loro interessi esterni.

Quello che ha riportato il Sudan sotto i riflettori dei media internazionali è stato un massacro nello stato di Gezira, nella parte orientale del Paese, dove i combattimenti della guerra civile tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (RSF) sono più accesi. Le informazioni su quanto accaduto sono state diffuse da alcuni attivisti locali noti come Comitati di resistenza di Wad Madani, i quali hanno diffuso un video che mostra decine di corpi avvolti in teli bianchi preparati per la sepoltura. Tutto è avvenuto nel villaggio di Wad al-Nourah, nello stato di Gezira, dove secondo le accuse le RSF avrebbero compiuto due raid (confermati da loro stesse) e ucciso almeno 150 persone – senza discriminazione dei bersagli.

In Sudan, l’esercito regolare è guidato dal presidente Fattah al Burhan, mentre le RSF, che sono di fatto un esercito parallelo con profonde penetrazione nei gangli del potere politico ed economico, sono comandate dal vicepresidente Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto anche come “Hemedti” – le RSF sono eredi dei janjawid, miliziani di etnia araba accusati di genocidio durante la guerra nella regione del Darfur, iniziata nel 2003. Prima dell’inizio dell’ attuale guerra, il Sudan era governato da una giunta militare chiamata Consiglio Sovrano, che ha preso il potere con un colpo di stato militare nell’ottobre 2021 e di cui facevano parte sia al Burhan sia Hemedti.

Tra al Burhan ed Hemedti c’è stato uno scontro politico prolungato sul futuro del governo sudanese, in particolare sulle condizioni per una transizione a un governo civile. La situazione è degenerata rapidamente in una guerra che dalla scorsa primavera a oggi ha causato la morte di almeno 15.000 persone, secondo stime aggiornate all’inizio di quest’anno. All’inizio di giugno, l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha segnalato che più di 9,2 milioni di individui hanno dovuto lasciare le loro case. Di questi, oltre 7 milioni si sono spostati all’interno del paese, mentre più di 1,8 milioni hanno cercato rifugio attraversando le frontiere nazionali. Tra questi, oltre 600mila hanno attraversato il confine verso il Ciad e altri 500mila si sono diretti a nord verso l’Egitto. La situazione di emergenza umanitaria è particolarmente grave nel Darfur, la regione sud-occidentale del Sudan, che ha già sofferto le atrocità della guerra nei primi anni del 2000.

Per Human Right Watch, le RSF stanno compiendo una pulizia etnica contro le minoranze non islamiche locali, soprattutto contro i Masalit. Il governatore del Darfur occidentale ha pubblicato un video in cui dietro di lui si vede una distesa di cadaveri. Incolpando le forze di Hemedti dell’accaduto, dice: “Cosa si aspetta il mondo da queste milizie – si legge nel post -e cosa si aspettano i Paesi sostenitori da queste milizie?”.

Dal conflitto vogliono capitalizzare forze straniere. Per esempio, la Russia ha da tempo avviato il supporto alle RSF (prima tramite la Wagner e attualmente con l’Afrika Corps): Mosca muove un doppio obiettivo, economico (per il controllo dei giacimenti, soprattutto oro), e strategico, perché il Sudan è un Paese con una posizione geografica e morfologica importantissima, sia per le attività nel Mar Rosso che nel Sahel.

L’aggravarsi della crisi sudanese, che come scrive Foreign Policy potrebbe essere una “Somalia on steroids”, potrebbe avere effetti a cascata esattamente in quelle due aree e andarsi a sommare a condizioni di instabilità già prodotte per esempio dall’esplosione dei colpi di stato saheliani e dalla destabilizzazione dell’Indo Mediterraneo causata dagli Houthi. L’inviato speciale statunitense ha detto che la guerra civile sudanese “potrebbe trasformarsi in un conflitto regionale in piena regola”, e questo è un altro dei grandi dossier che toccano anche l’Italia. Il Piano Mattei, ossia il claim che racchiude la strategia italiana per l’Africa, trova infatti questo genere di ostacoli nella costruzione di un sistema di cooperazione paritaria con i Paesi africani, che chiedono maggiore impegno in certi dossier.

In questi giorni, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, discute proprio della guerra in Sudan, che ha spostato quasi un milione di persone attraverso il confine del Sudan in Ciad e Libia, durante la sua visita a N’djamena. Lavrov come solito porta con sé un messaggio anti-occidentale, che sembra ascoltare i desideri degli attori locali, ma contemporaneamente soffia sul fuoco della guerra sudanese – che non vuole sistemare con un accordo tra le parti, piuttosto con la vittoria di un fronte, con le RSF preferito, perché la sopraffazione potrebbe aprire maggiore spazio per gli interessi di Mosca.

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