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Vi spiego cosa ha spinto Lagarde a tagliare i tassi. Parla Angeloni

Piuttosto curioso che Francoforte abbia ridotto il costo del denaro quando le sue stesse stime prevedevano un aumento dell’inflazione. La verità è che la presidente della Bce si è fidata più del suo staff che dei numeri. Difficili nuovi tagli nell’immediato. La separazione monetaria dalla Fed? Un non problema. Intervista all’economista e docente presso il Robert Schuman Center of the European University Institute of Florence​ ed ex membro del Comitato esecutivo della Bce

Per molti è un toccasana. Per altri solo un contentino, destinato a rimanere tale. All’indomani della decisione della Banca centrale europea di ridurre il costo del denaro di 25 punti base, dopo due anni e dieci rialzi consecutivi, è tempo di chiedersi il senso e il messaggio sotteso a tale scelta. Formiche.net lo ha fatto con Ignazio Angeloni, economista di lungo corso e docente presso il Robert Schuman Center of the European University Institute of Florence, per diversi anni parte del Comitato esecutivo della Bce.

Ieri il primo taglio dei tassi dopo 5 anni e due di rialzi. Un buon segnale per i mercati, eppure la sensazione che si ha è che sarà un caso isolato o quanto meno non l’inizio di un ciclo: è così?

La riduzione del tasso base dal 4% al 3,75% era largamente attesa. Quel che sorprende è che essa sia avvenuta quando tutti gli altri indicatori puntavano altrove, segnalando una resilienza dell’inflazione o perfino un rialzo.

Che cosa vuole dire?

Mi riferisco non solo alle ultime letture sui prezzi ma anche alla crescita economica, che lo staff Bce ha rivisto al rialzo, e alla dinamica dei salari, in aumento nel primo trimestre. Nei 25 anni di vita della Bce non era mai successo che essa riducesse i tassi quando l’inflazione era al tempo stesso oltre l’obiettivo e in aumento negli ultimi dati sia dell’indice complessivo sia di quello sottostante.

E questo, secondo lei, che cosa significa?

Che la Bce si è fidata delle previsioni del suo staff, che a dispetto delle altre evidenze ritiene si vada comunque verso una normalizzazione al 2%, peraltro rimandata al 2026. Una decisione quindi non data dependent, come si sente ripetere spesso, ma basata sulle aspettative, o meglio sulla fiducia che le previsioni dello staff si riveleranno corrette.

Insomma, una decisione poco connessa alla realtà dei numeri. Ma la sua previsione per il futuro dell’inflazione, quale è?

Ritengo che nelle prossime occasioni, cioè a settembre e dicembre, non basterà quella fiducia di cui parlavo. Per vedere ulteriori ribassi dei tassi sarà necessario che la disinflazione sia convalidata dai dati effettivi. Se questo accade, da allora in poi diventerà importante capire dove la banca centrale ritiene si trovi il tasso naturale di interesse, ossia quello di equilibrio. Un tema sul quale la presidente non si è espressa. A mio avviso le stime pubblicate recentemente dalla Bce, di un tasso reale, al netto cioè dell’inflazione), appena sopra lo zero, sono troppo basse.

Il che vuol dire che…

Che in equilibrio, con crescita e inflazione sotto controllo, il tasso reale non dovrebbe essere troppo lontano da quello di crescita dell’economia, che la Bce colloca all’1,5 o poco sopra a partire dal 2025. Un tasso di interesse cioè né troppo alto da frenare gli investimenti, né così basso da scoraggiare il risparmio.

Le previsioni sull’inflazione sono state aggiornate al rialzo dalla Bce. Che cosa sta davvero spingendo i prezzi? E davvero dobbiamo aspettarci un costo della vita saldamente sopra il 2% per i prossimi mesi?

Gli effetti di trascinamento dell’inflazione passata sui salari, ora soprattutto nella componente contrattuale, sono importanti. Le altre componenti dei prezzi continueranno a essere erratiche, come ha detto la presidente. Ulteriori progressi nella disinflazione non sono né facili né scontati. Riguardo ai salari, non condivido del tutto i frequenti richiami della Banca centrale alla loro moderazione. L’erosione inflazionistica va recuperata in larga parte, soprattutto nelle frange salariali più basse, a maggior ragione ora che le ragioni di scambio stanno tornando verso l’equilibrio. Non possiamo permetterci un aumento ulteriore delle disuguaglianze e della povertà.

La decisione di allentare i tassi ha sancito la separazione monetaria dalla Fed. Negli Usa un’economia che tira e con un mercato del lavoro a pieno regime, spingono la domanda e dunque i prezzi e per questo la Fed temporeggia. Quando si aspetta, lei, una inversione di rotta da parte della Banca centrale americana?

La separazione monetaria dagli Stati Uniti mi preoccupa meno. Già negli anni dal 2015 al 2019 si era verificata, quando la Fed aumentò i tassi mentre la Bce li portava sempre più in zona negativa. E poi comunque una variazione di 25 punti base non fa molta differenza: prova ne sia che il cambio euro-dollaro non si è mosso. La banca centrale americana non ha al momento ragione di abbassare i tassi, sento addirittura voci di un aumento. E in un anno elettorale difficile come questo, nel quale il tema dell’inflazione è cosi sentito dall’opinione pubblica americana, la Fed farà ben attenzione a non prestare il fianco a strumentalizzazioni.



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