Netanyahu ha chiaro che nella possibile guerra contro Hezbollah avrà bisogno degli Usa, e forse anche per questo accetta la pressione esplicita per portare avanti il cessate il fuoco su Gaza (nonostante i rischi politici)
“It’s time to close”, ha detto Joe Biden a Benjamin Netanyahu durante una telefonata, giovedì sera, in cui il primo ministro israeliano annunciava al presidente americano di aver dato mandato al suo team di negoziatori di lavorare su un possibile accordo con Hamas che riguarda lo scambio dei rapiti dai terroristi (tra loro ci sono anche alcuni americani) e il cessate il fuoco. Le ultime evoluzioni sembrano positive, ma niente è deciso finché non è deciso — perché la rigidità di Netanyahu nel negoziare non è solo questione di interesse per Israele, ma anche necessità politica e personale per evitare che l’ultra destra faccia cadere il suo governo (aprendo per lui un futuro incerto).
Biden dice che è tempo di chiudere — l’accordo, e la guerra (sottinteso) — in un giorno in cui 250 tra missili e droni di Hezbollah colpiscono il nord di Israele (conseguenza del raid in cui è stato eliminato il comandante dell’unità Aziz di Hezbollah) e mentre mezzo mondo intellettuale americano (e non solo) chiede al democratico un passo indietro per ritirarsi dalla candidatura. Ritiro che probabilmente favorirebbe la migliore delle sponde che Netanyahu abbia mai avuto all’interno della politica statunitense (che non lo ha mai amato fino in fondo): Donald Trump — che forse tra pochi mesi tornerà alla Casa Bianca. Dunque Netanyahu, tenendo in conto le sue necessità, potrebbe avere buone ragioni per svicolare dalle pressioni, tirare avanti, aspettare, proteggersi.
Non si sa l’effettiva reazione del premer davanti a questa ennesima pressione statunitense. Perché è vero che arriva nel momento di maggiore difficoltà del presidente americano, dopo un pessimo primo dibattito contro lo sfidante presidenziale repubblicano che lo ha indebolito sul piano internazionale. Ma è anche vero che Netanyahu potrebbe avere almeno due ragioni per accettare la spinta e convincere i suoi alleati politici che è la scelta giusta. Giusta anche perché permetterebbe a Biden di rivendicare un successo in un momento di campagna elettorale in cui tutto serve. E accontenta l’amministrazione Usa può essere più che utile adesso.
Con ordine: la prima ragione per Netanyahu riguarda lo stretto contesto di Gaza. Israele ha già detto di avviarsi alla conclusione del grosso delle operazioni di guerra. Fermare le armi serve anche allo stato ebraico, per la sua immagine nel mondo. E poi ora pare che Hamas abbia accettato per la prima volta il percorso che Biden aveva delineato in un discorso alla fine di maggio, spendendo il suo peso diplomatico nel dossier. A quanto sembra, per fare un piccolo excursus tecnico, la milizia/partito palestinese ha accettato la transizione tra la prima e la seconda fase dell’accordo e ora concorda con Israele. Restano lavori sui dettagli, ma sul quadro operativo dovrebbe esserci un’intesa. La delegazione israeliana arriva a Doha oggi per iniziare negoziati su quei dettagli, e una squadra statunitense assiste nei colloqui — come sponda israeliana.
La sponda israeliana è la seconda delle ragioni per cui Netanyahu potrebbe aver accettato le pressioni di Biden. E non tanto al tavolo negoziale qatarino con Hamas, ma davanti a quel che potrebbe succedere sul campo con Hezbollah — e nel sistema diplomatico innescato per controllare la deriva al confine settentrionale dello stato ebraico, che pare ogni giorno più inevitabile. Israele sa che la milizia libanese non è Hamas: è molto più forte, organizzata, preoccupante.
Uno scontro aperto con la milizia di Hassan Nasrallah potrebbe significare necessità di assistenza militare non solo in termini di forniture — ma anche attiva. Inoltre c’è il rischio che l’Iran si muova: Hamas può essere persa, Hezbollah no (ma intanto i due gruppi si incontrano a Beirut, oggi). Di più: a livello internazionale, Israele non ha avuto bisogno di supporto pratico per combattere Hamas, ma nel caso di Hezbollah potrebbe servire, sia a livello tecnico (uso di basi, scali, cieli e rotte), sia diplomatico. E questo è chiaro a Netanyahu quanto alle fazioni estremiste del suo esecutivo.
Quelle componenti ispirano il caos nel West Bank, dove i coloni organizzati in squadra di assalto armate che incendiano campi e picchiano civili — legittimati anche da un governo che continua con le decisioni di espandere in territori occupati. Ma quelle componenti non hanno chiavi politiche per gestire la situazione al nord. E per questo Netanyahu può pressarle con bilanciamento e contrappesi. Al nord si rischia una guerra vera, una grande guerra, con effetti regionali ampi che vedrebbero al centro Israele. Davanti a questo, serve assicurarsi protezione massima e senza indugi, dando in cambio qualche concessione?