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Cina, Ue e Italia. Gli esteri di Harris e Trump spiegati da Ian Bremmer

Se Harris difenderebbe la continuità, Trump porterebbe con sé il cambiamento. Ma questo non vale per tutti i dossier. In alcuni casi, i due contendenti potrebbero implementare politiche più simili di quanto si possa pensare. E su Meloni in Cina… Conversazione con il fondatore e presidente di GZero Media ed Eurasia Group

Le elezioni statunitensi si fanno sempre più vicine. E il loro esito non sarà significativo soltanto per la dimensione interna degli Stati Uniti, ma anche per quella esterna. I due contendenti sono fautori di due approcci molto diversi alla politica estera, e ciascuno gestirebbe in modo completamente diverso ogni singolo dossier… o forse no? Formiche.net lo ha chiesto a Ian Bremmer, politologo statunitense fondatore e presidente di GZero Media ed Eurasia Group, per delineare quali linee di politica estera la prima potenza mondiale potrebbe seguire in base al diverso esito delle presidenziali del prossimo novembre.

La campagna elettorale di Trump promette una rottura totale con la presidenza di Joe Biden. Rottura che riguarderà anche la politica estera. Ma come si concretizzerà sul piano pratico?

Una vittoria di Trump porterà a una maggiore volatilità nella politica estera. Con risultati misti: alcuni saranno positivi, altri negativi. Bisogna riconoscere che la visione di Trump sulla politica estera è una visione unilaterale, in cui gli Stati Uniti sono dipinti come il Paese di gran lunga più potente al mondo, e Trump vuole usare questo potere per ottenere risultati che sono di suo interesse. Lo si è visto nella sua prima amministrazione, in questioni come quella della chiusura del confine. Quindi penso che con i Paesi in cui gli Stati Uniti hanno molta influenza (penso ad esempio a Messico e Canada), vedremo Trump spingere molto forte, ricorrendo alla leva economica. Probabilmente riuscendo nel suo intento di revisionare l’Usmca nel 2026.

Viceversa, Harris si porrà in modo più consequenziale rispetto alla presidenza Biden

Per quanto riguarda Kamala Harris, in generale è molto simile a Biden, con un paio di grandi differenze. La prima è che rifiuta l’approccio di Biden della “democrazia contro l’autocrazia”, che è piuttosto ideologica, in termini di guerra fredda. Kamala non vede il mondo in questo modo. Lo vede molto più come un avvocato, come un pubblico ministero. E questo significa concentrarsi sullo Stato di diritto. Concentrarsi sulle norme internazionali. Concentrarsi maggiormente sul multilateralismo.

Uno dei temi di politica estera dove Trump ha spinto maggiormente è quello del conflitto ucraino. Il Tycoon vuole il negoziato. Lo avrà?

Per quanto riguarda la Russia e l’Ucraina, Trump vuole davvero porre fine alla guerra. Il che implicherebbe che l’Ucraina debba cedere alcuni territori che la Russia attualmente occupa. In cambio, però, i russi dovrebbero accettare che l’Occidente difenderà il resto dell’Ucraina, e questo significa un forte sostegno militare continuo da parte degli Stati Uniti e dell’Europa. Ed è possibile che questo approccio abbia successo. Ma c’è anche la possibilità che le cose peggiorino molto sotto Trump: le sue politiche più unilaterali si traducono in un minore coordinamento con gli europei e gli alleati della Nato. E ciò potrebbe comportare una maggiore frammentazione all’interno del blocco euroatlantico.

Harris invece sembra intenzionata a continuare a sostenere Kyiv…

Credo che Harris ci proverà. Nonostante un grande problema, ovvero che per sei mesi gli Stati Uniti non hanno fornito le munizioni, l’artiglieria e gli altri sistemi d’arma di cui gli ucraini avevano bisogno perché il Congresso non li aveva approvati. Penso che questo diventerà più difficile nel prossimo anno, ed eventualmente in quelli successivi. Se la guerra continua, la capacità degli americani di continuare a fornire quel livello di supporto all’Ucraina sarà più difficile. Inoltre, naturalmente, gli ucraini non hanno personale che possono addestrare e inviare in prima linea come fatto fino a pochi mesi fa. Penso che l’orientamento di Harris sia quello di mantenere la politica di Biden. Ma credo che sarà più difficile per lei farlo davvero. Dal punto di vista ideologico, Trump e Harris hanno prospettive diverse sull’Ucraina. Ma sul piano pratico, le loro politiche nei prossimi anni potrebbero essere probabilmente meno diverse di quanto si pensi.

Altro grande tema è la Cina. La prima presidenza Trump ha visto perseguire una linea molto “hawkish”. Immagino che una seconda presidenza non sarebbe da meno

Decisamente. Trump sta parlando di imporre tariffe del 60% su tutte le esportazioni cinesi negli Stati Uniti. Ora la Cina è sottoposta a una forte pressione economica, che potrebbe portare i cinesi a dire: “Oh, mio Dio! Dobbiamo collaborare con gli americani perché la situazione è troppo spaventosa e dobbiamo concedere a Trump un ottimo accordo”. Oppure, i cinesi potrebbero rispondere con ritorsioni significative. Accompagnate da una serie di sforzi cinesi per migliorare le relazioni con gli alleati americani. Se Trump divenisse di nuovo il presidente del Paese più potente, il motto latino “homo faber fortunae suae” diverrebbe il mantra del sistema internazionale.

La scelta della presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni di recarsi in Cina rientra in questa ottica?

Probabilmente sì. Ma dobbiamo anche vederla dall’altra parte. Fino ad ora, i Paesi europei si sono sempre più allineati con gli Stati Uniti nella competizione strategica con la Cina. Questo è un problema per Pechino, soprattutto se si considera il cattivo andamento della loro economia. E stanno cercando di trovare un modo per contrastare quella che considerano una politica di contenimento guidata dagli Stati Uniti. Questo include sicuramente i loro recenti sforzi con Meloni, che in parte si sono rivelati fruttuosi.

Una presidenza Trump favorirebbe un colpo di mano di Pechino nei confronti di Taiwan?

Trump sta ricevendo molte critiche, per aver detto che Taiwan deve pagare di più, che è come una compagnia di assicurazioni. Come se non pagassero abbastanza per la difesa americana. Lui non difende necessariamente se non lo fanno loro. Ma questa è la sua prospettiva con molti Paesi del mondo, dal Giappone alla Corea del Sud ai Paesi Nato, eccetera. Non credo che questo cambi davvero la natura delle garanzie di sicurezza degli Stati Uniti nei confronti di Taiwan. Ma penso che la questione della riunificazione con Taiwan sia una questione a lungo termine, soprattutto perché la Cina è sottoposta a pressioni economiche interne. Inoltre, la geopolitica nella regione non sta andando bene per la Cina, con il Quad, con l’Aukus, con il riavvicinamento Corea del Sud-Giappone facilitato dagli Stati Uniti. I cinesi non sono nella posizione di cercare un’escalation nel loro cortile, compreso il caso di Taiwan.

Nel campo Dem, anche in questo caso la line di Harris sarebbe simile a quella di Biden

Penso che sia molto allineata con Biden sulla politica della Cina. È meno allineata con lui sul Medio Oriente, in particolare su Israele e Palestina. Vorrebbe rafforzare maggiormente le relazioni con gli Stati del Golfo e vuole spingere il governo israeliano ad affermare e riconoscere uno Stato palestinese e i diritti umanitari dei palestinesi, che sono stati chiaramente violati nel corso della guerra degli ultimi mesi. Queste sono le grandi differenze che vedo tra le due mosse.

A proposito di Medio Oriente, parliamo di Iran. Un Paese ostile, due approcci diversi? Iniziamo da Trump

Normalmente, Trump viene percepito come un fautore di accordi, e che non si cura nemmeno se l’ideologia del Paese è contraria a quella degli Stati Uniti. Lo si è visto con il suo summit con Kim Jong Un e la Corea del Nord, e con la sua volontà di impegnarsi ripetutamente con Putin e la Russia. L’Iran è un’eccezione. Ricorderete che Trump ha ordinato l’assassinio di Qasem Soleimani, che era a capo delle Forze di Difesa iraniane alla fine del suo mandato. Da allora, gli iraniani hanno messo in atto tutta una serie di tentativi per sconvolgere la vita di funzionari americani chiave sotto Trump. Hanno anche promosso un attentato rivolto contro Mike Pompeo, che ha portato a una sicurezza significativamente maggiore per lui ovunque vada, e anche un attentato contro lo stesso Trump. Quindi non credo che ci sia alcuna possibilità che gli Stati Uniti si impegnino nuovamente con l’Iran sotto Trump. Ricordiamo che Trump è l’uomo che si è tirato fuori unilateralmente dal Jcpoa, l’accordo sul nucleare iraniano. E l’ha fatto a causa di Obama, perché era l’accordo di Obama. Credo che la probabilità che gli Stati Uniti finiscano in una posizione molto più ostile nei confronti dell’Iran sotto Trump sia piuttosto alta.

Mentre qui sarebbe Harris a cercare il compromesso…

Penso che Kamala Harris sarebbe disposta a valutare un ritorno al Jcpoa, o a una qualche formulazione che consenta un impegno con l’Iran e una riduzione delle sanzioni se questo è disposto a consentire l’accesso agli ispettori internazionali e a ridurre l’arricchimento dell’uranio, le scorte e questo genere di cose. Ma Kamala e il suo team sono molto scettici sul fatto che il nuovo governo iraniano possa sostenere tutto ciò. C’è un cambiamento apparente con il nuovo presidente, ma lui non sente di avere alcun potere nel Paese. Non ne ha affatto. È il leader supremo che prende ancora queste decisioni.

L’ultimo grande tema è quello delle relazioni transatlantiche. Con i democratici riconfermati alla presidenza, anche se con qualche sfumatura diversa, la linea generale rimarrebbe la stessa. Se invece Trump tornasse alla Casa Bianca, credo che potremmo assistere a molti cambiamenti..

Credo che quelli europei siano i Paesi che saranno più colpiti, sotto molti aspetti, da un’eventuale amministrazione Trump, in particolare per quanto riguarda l’Unione europea. A Trump non piace l’Ue. Vuole trattare con i singoli Paesi europei a livello bilaterale. E vede l’Ue come una capacità degli europei di coordinarsi e fare leva insieme contro gli Stati Uniti. Ha sostenuto con forza la Brexit. Gli piace Nigel Farage, che è stato il principale sostenitore della Brexit e che è andato a trovare Trump subito dopo l’attentato. Gli piace Marine Le Pen. Gli piace Viktor Orban. Si tratta delle persone più euroscettiche della stessa Unione europea. Quando, da presidente, incontrava Macron, all’inizio dell’incontro gli chiedeva sempre: “Quando uscirai dall’Ue come hanno fatto i britannici?”. C’è una sfida molto significativa che gli europei dovranno affrontare perché ci sono, come sapete, molti leader euroscettici che stanno ottenendo risultati migliori nei sondaggi rispetto a quando Trump era presidente. Lo vediamo con Fico, in Slovacchia. Lo vediamo con la crescente popolarità dell’AfD in Germania, e dell’estrema destra nei Paesi Bassi. E questa sfida riguarda principalmente Francia e Germania. Credo che siano i Paesi che probabilmente sono più preoccupati di ciò che una presidenza Trump significherebbe per loro.


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