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Il dibattito Biden-Trump visto dal Cremlino. La lettura di Pellicciari

Le reazioni russe al dibattito presidenziale Usa rivelano le dinamiche geopolitiche e le strategie del Cremlino. Mentre i media americani criticano Biden, Mosca mantiene una linea editoriale prudente, evitando di attaccare personalmente il presidente. Questa posizione riflette la preferenza di Mosca per interlocutori stabili e chiari. L’analisi di Igor Pellicciari (Università di Urbino)

Le precarie condizioni mostrate da Joe Biden durante il dibattito con Donald Trump hanno posto la questione se egli sia adatto per affrontare un nuovo mandato alla Casa Bianca. Le ipotesi di sostituirlo come candidato presidenziale hanno generato un confronto acceso eppure tutto centrato sulla situazione interna americana, molto meno su quella internazionale. Rinunciando ad una prospettiva che pure offre importanti indicazioni.

Il dibattito presidenziale visto da Mosca

In particolare, le reazioni registrate nell’occasione in Russia dicono molto delle reali dinamiche in corso dietro le quinte tra Mosca e Washington, mentre corrono su binari paralleli azioni di contrapposizione militare indiretta e contatti (pre)negoziali sulle principali crisi in corso (non solo in Ucraina). In un apparente paradosso, nel day-after del dibattito presidenziale USA le voci più feroci nei confronti di Biden, al limite del sarcasmo, si sono levate nei media americani; mentre quelli russi hanno dato la netta impressione di non volere infierire evitando di speculare sullo stato della salute mentale del presidente americano.

Si è riproposta una linea editoriale russa tutt’altro che nuova, in linea con l’orientamento del Cremlino di evitare di andare sul personale nei duri scambi di accuse con Washington. Per dirne una, a Biden sono state risparmiate le accuse di demenza che invece Vladimir Putin poche settimane fa non ha esitato a rivolgere al segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Che le condizioni cognitive di Biden siano molto peggiorate è un’indiscrezione ben nota negli ambienti diplomatici internazionali, rilanciata con maggiore vigore dopo ogni evento internazionale cui egli ha presenziato. Da ultimo, alle celebrazioni dello sbarco in Normandia e alla riunione del G7 in Puglia, dove il presidente a momenti è apparso assente e spaesato. Ugualmente è un fatto assodato che l’attuale politica estera americana sia decisa e gestita da un executive team informale che include inter alia il segretario di Stato Antony Blinken, il consigliere per la sicurezza Jake Sullivan, il capo del Pentagono Lloyd Austin, il direttore della CIA, William Burns.

Presidenza attuale vs Presidenza futura

Il punto è che questa situazione per Mosca rappresenta più un’opportunità che un problema. Per un paese che in passato ha avuto leader tenuti in vita per ragioni politiche (Konstantin Cernenko ai tempi dell’URSS) o messi sotto tutela per i problemi di alcolismo (il primo presidente russo Boris Eltsin), è irrilevante il livello di coinvolgimento di Biden nella politica estera americana, purché a Mosca sia chiaro con chi relazionarsi a Washington. Mantenere il livello del confronto con gli USA su un piano politico-militare (ma senza delegittimarne la leadership) conferma una regola chiave della politica estera russa: prediligere e mantenere interlocutori chiari e stabili, anche nello scontro.

Tanto più che oggi l’attenzione di Mosca, prima ancora che alla prossima presidenza degli Stati Uniti, è rivolta a quella attuale, che – comunque vada – resterà in carica fino al 20 gennaio 2025 (per inciso: un aspetto totalmente bypassato dal dibattito interno americano, come se gli eventuali deficit cognitivi di Biden fossero un problema solo futuro e non riguardassero anche il presente). La priorità per il Cremlino sono adesso i restanti 7 mesi di questa presidenza Biden: un’eternità in politica estera, ancora più nel mentre dei conflitti in Ucraina ed a Gaza, con sullo sfondo un traumatico riequilibrio degli assetti mondiali tra il blocco dei G7 e dei Brics (di cui la Russia detiene la presidenza di turno).

Sperare in Biden, prepararsi a Trump

La vera sorpresa semmai sta in un secondo segnale arrivato in questi giorni dal Cremlino, direttamente per mano di Putin che ha affermato di considerare sincere le assicurazioni di Trump di volere mettere fine al conflitto in Ucraina e che la Russia intende sostenerle. Per la tempistica (alcuni giorni dopo il fatidico dibattito presidenziale statunitense) e l’occasione in cui è stata rilasciata (ad Astana, a latere del vertice dell’Organizzazione della cooperazione di Shangai), si tratta di una dichiarazione ben ponderata, tarata per il contesto internazionale. Anche qui tutt’altro che casuale e non contradditoria con le strategie russe. Vederci un semplice endorsement del Cremlino a Trump è riduttivo e semplicistico e risente delle suggestioni del Russiagate della prima ora, i cui assunti si sono poi clamorosamente sgonfiati.

Per i motivi indicati in precedenza su queste pagine, Mosca continua a pensare che un’amministrazione Biden sia un’opzione migliore di un presidente Trump, che si è dimostrato essere un attore imprevedibile e spiazzante, che predilige muoversi fuori dai tradizionali canali diplomatici. Al netto di questa preferenza per Biden, è risaputo che il Cremlino si sta comunque preparando da tempo alla possibilità di un ritorno di Trump alla Casa Bianca per evitare di essere preso nuovamente di sorpresa come nel 2016. Quando dando per scontata l’affermazione di Hillary Clinton, Mosca si era attrezzata per l’eventualità, salvo poi faticare a interagire con lo sconosciuto universo trumpiano.

Trump II – la vendetta

A conferma dell’eccezionale impatto internazionale che ha avuto il dibattito presidenziale statunitense, la dichiarazione di Putin ad Astana sta a dirci che la novità è che oggi Mosca stessa (e anche Pechino) da per probabile, se non quasi per certa, una vittoria di Trump alle prossime elezioni. E che quindi, obtorto collo, la Russia e le diplomazie dei Brics si stanno riposizionando di conseguenza. Anche se l’opzione preferita per il Cremlino resta di sfruttare la lunga coda finale di questa Presidenza Biden per negoziare le condizioni migliori per porre fine al conflitto in Ucraina. Prima dello stravolgimento (nel bene e nel male) dello scenario complessivo internazionale che si teme porterebbe un nuovo mandato di Trump interpretato come un sequel del primo. Come una “presidenza parte II – la vendetta”.



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