Il Vecchio Continente può cogliere l’occasione di una seconda amministrazione di “The Donald” per assumere responsabilità maggiori e ricoprire finalmente un ruolo più forte e influente a livello internazionale. Ma serve mettere da parte divisioni e nazionalismi. L’analisi dell’ambasciatore Giovanni Castellaneta
All’indomani della conclusione della convention repubblicana di Milwaukee, che ha incoronato Donald Trump candidato alla Casa Bianca, ci si chiede se il discorso di investitura sia stato più “istituzionale” e conciliante oppure all’insegna dei consueti toni duri e divisivi.
Si potrebbe dire che “The Donald” abbia fatto sapiente ricorso a entrambi: da una parte, sfruttando il fatto di essere miracolosamente sopravvissuto all’attentato di sabato scorso, il che gli ha consentito di adottare toni “messianici” e più ecumenici, presentandosi come il candidato voluto da Dio e come un premuroso marito e padre di famiglia; dall’altra, facendo leva sulle questioni chiave per il Grand Old Party, dal contrasto all’immigrazione illegale (promettendo una “deportazione di massa” dei clandestini oltre il confine messicano), alla riduzione della pressione fiscale, fino al contrasto commerciale contro la Cina e alla revoca del sostegno militare e finanziario all’Ucraina. È stato, insomma, un discorso pronunciato da chi sente di avere il vento in poppa e volto ad accontentare tutti, dalle anime più radicali del partito (per accontentare le quali è stato scelto di portare a bordo J.D. Vance, simbolo dei bianchi svantaggiati hillbilly) fino a eventuali indecisi che si riconoscono però in alcuni valori più conservatori.
Il discorso di Trump, seppur rivolto alla platea interna degli elettori statunitensi, ha però delle implicazioni significative anche per il resto del mondo e per noi europei in particolare. I detrattori dell’ex presidente hanno sottolineato con preoccupazione come le promesse di far cessare il conflitto tra Russia e Ucraina in meno di 48 ore e di ridurre il sostegno militare in ambito Nato se gli altri alleati non dovessero tenere fede al target del 2% del prodotto interno lordo in spese per la Difesa potrebbero lasciare l’Europa indifesa davanti a potenziali azioni ostili di potenze avversarie come Russia e Cina. Si parla di una crescente tendenza all’isolazionismo, anche se forse sarebbe più corretto chiamarlo reshoring geopolitico, ovvero una tendenza da parte degli Stati Uniti di ridurre la propria proiezione e influenza a livello internazionale per occuparsi maggiormente delle proprie questioni interne e del proprio interesse nazionale.
A ben guardare, questa tendenza non è stata avviata da Trump e dai repubblicani, ma si tratta di un processo in corso da circa un quindicennio, almeno dal famoso discorso del Cairo tenuto da Barack Obama (certamente non un repubblicano né un conservatore) nel 2009. Da quel momento, infatti, gli Stati Uniti presero consapevolezza di non essere più in grado di garantire la sicurezza su tutti gli angoli del globo, “scottati” dalla dottrina neocon interventista basata sull’esportazione della democrazia e che era miseramente fallita. Già in quegli anni di amministrazione democratica, gli Stati Uniti avevano preferito non intervenire in conflitti che non consideravano di interesse o responsabilità diretta, come la guerra civile in Libia o in Siria, demandando invece agli alleati europei la facoltà di gestire queste crisi in prima persona. In parallelo, l’amministrazione Obama fece delle scelte strategiche ben precise, iniziando a prendere di mira la Cina come principale avversario e concentrando dunque la gran parte degli sforzi militari (ed economici) nel contenimento di Pechino nella regione dell’Indo-Pacifico. Sforzi che sono proseguiti in maniera abbastanza coerente anche durante l’amministrazione Trump (al di là dei toni più accesi) e, negli ultimi anni, durante il mandato di Joe Biden.
Alla luce di queste considerazioni, noi europei dovremmo preoccuparci? È sufficiente rileggere la storia per accorgersi che gli Stati Uniti non hanno sempre assolto la funzione di “ombrello” dell’Europa, e che anzi esattamente un secolo fa Washington non era minimamente interessata alle vicende che accadevano nel Vecchio Continente: servì l’attacco di Pearl Harbour per convincere lo zio Sam a entrare in guerra. Al di là dei danni economici che l’Europa dovrebbe sopportare in conseguenza di un probabile ritorno di Trump alla Casa Bianca (i dazi più elevati colpirebbero le nostre esportazioni), tale eventualità dovrebbe essere considerata come un’opportunità per assumere responsabilità maggiori e ricoprire finalmente un ruolo più forte e influente a livello internazionale. Per fare ciò, però, occorre mettere da parte divisioni e nazionalismi che servirebbero solamente ad aumentare la frammentazione, esponendo la nostra fragilità alle ben più forti (e minacciose) potenze esterne.
(Foto: Twitter, @GOP)